
In questo periodo sono fissato col recuperare cose rimaste inutilizzate nei numerosi cassetti (hard disk) pieni zeppi di ricordi e lavori finiti, ma che, per qualche motivo, a suo tempo non hanno guadagnato la pubblicazione.
Si tratta di fumetti, illustrazioni, vignette, libri, dischi, video e il motivo per averli trascurati a volte mi è ancora chiaro, altre no. Di sicuro, in molti casi la colpa è stata delle “distrazioni” introdotte dal vivere quotidiano che, quando era il momento, non mi hanno permesso di concentrarmi come desideravo, e come sarebbe stato giusto fare, sul problema di presentare a dovere queste produzioni all’esterno.
Sì, perché capita sempre di pensare che la cosa difficile sia creare qualcosa, ma poi puntualmente ci si accorge che, dopo aver faticato tantissimo per portare a termine un qualsiasi lavoro creativo, ad attenderci c’è un enorme lavoro per proporlo, presentarlo, venderlo, diffonderlo.
Una di queste vecchie produzioni oramai impolverate è stato proprio il mio ultimo disco Harmonica Mundi, uscito solo la scorsa settimana, ma finito di registrare una vita fa; stessa cosa accadrà col prossimo, un “nuovo-vecchio” disco di jazz col quale proporrò mie composizioni giovanili registrate nel 2012 (!); è accaduto pure con l’aforisma precedente, quello su Toots, e accade con questo dedicato all’assolo di George Coleman su Maiden Voyage, brano che dà il titolo a uno dei dischi più belli della storia del jazz.
Comprato da ragazzo, ascoltato così tanto da conoscerlo interamente a memoria, come sempre accade, questo capolavoro a nome del pianista e compositore Herbie Hancock è stato reso tale grazie anche alla partecipazione di musicisti che sono vere e proprie divinità in terra: Freddie Hubbard alla tromba, Ron Carter al contrabbasso, Tony Williams alla batteria e lui, il protagonista di oggi, il sassofonista George Coleman.
Quando ho trovato in rete la trascrizione di questo suo assolo, ho subito pensato di studiarlo e questa decisione in una prima fase mi ha regalato una strana sensazione, la stessa che ho provato pure trascrivendo gli assoli di Toots, di Getz, di Woods, …, ovvero tutti quelli oggetto degli altri aforismi pubblicati sin qui. La sensazione, più che altro un timore, era di una inevitabile perdita di magia.
So che è strano a dirsi, specie da parte di una persona che per lavoro cerca di capire alcuni meccanismi della Natura, ma le musiche che ho imparato ad apprezzare quando ancora, molto giovane, ero inconsapevole di tante, troppe cose, per me che non sono e non ero religioso, hanno costituito sempre qualcosa di davvero mistico; quasi un flusso di bellezza che scaturiva spontaneo dalla realtà senza che vi potesse essere una qualche spiegazione razionale per il loro manifestarsi.
Ovviamente ero consapevole che così non era, ma preferivo non pensarci; preferivo piuttosto far finta di non sapere che di sicuro doveva esservi una spiegazione in buona parte razionale e avente a che fare con lo studio di scale, accordi, inversioni, arpeggi, … armonia – nel caso dei miei beniamini, molto è innegabilmente da imputarsi al loro puro genio, ma l’applicazione costante allo studio ha fatto sì che siano diventati quelli che tutti conosciamo.
È stato per questo – e, diciamocelo pure, per una certa pigrizia giovanile – che ho iniziato a trascrivere i loro assoli da adulto, quindi molto tardi: pur suonando, quindi pur rendendomi conto che le frasi si costruiscono a partire dal materiale armonico a disposizione, ho mantenuto viva più a lungo che ho potuto quella magia, cercando di non “lordarla” con una spiegazione di qualche tipo che avesse a che fare con la conoscenza della struttura armonica del brano: quei musicisti dovevano continuare a essere delle divinità cui ispirarsi per la loro apparente, spontanea, mai studiata, naturale capacità di creare incredibili melodie su brani che invece noi, comuni mortali, dobbiamo affrontare in altro modo, faticando sulle sigle degli accordi.
Nel caso del disco di Hancock, poi, assunsi che finanche il titolo non dovesse ammettere una comprensione superiore: il suono delle due parole “maiden” e “voyage”, doveva quindi rimanere soltanto un altro bel suono, così da tutelare la bellezza di quell’ascolto; così da trovare una perfetta consonanza con la mia inconsapevolezza di quanto quelle note stavano raccontando.
E in tutto ciò ero grato pure alla foto “mossa” di copertina: quella sfuocatura, quel farmi capire e non capire, quel farmi vedere e non vedere, consentendomi di discernere in modo approssimativo il soggetto ripreso, era semplicemente perfetto; quasi giustificava il mio rifiuto di sapere di più. Intuivo che c’era una barca a vela, quindi il mare, e questo mi bastava, completando in modo esemplare la magia.
Questo modo di “sentire” la musica, unitamente alla pigrizia giovanile di cui sopra, mi ha quindi impedito di affrontare da subito le cose in un certo modo, facendomi invece privilegiare, nonostante gli studi classici di pianoforte, un approccio al jazz che non ammettesse altro se non l’uso dell’orecchio: la mia palestra perlopiù era, e lo è stata per decenni, salire su un palco ogniqualvolta se ne presentava l’occasione per unirmi a chiunque fosse lì, e mettermi a suonare qualsiasi cosa lì si stesse suonando, meglio ancora se si trattava di brani per me del tutto sconosciuti.
Tale modalità di “studio” di sicuro ha portato grandi benefici, ma oggi, oramai più che maturo, confesso di aver capito di avere perso anche delle occasioni. Gli aforismi che di tanto in tanto pubblico in fondo non sono soltanto la celebrazione del pensiero musicale in quanto tale, ma anche un tentativo di colmare lacune importanti: mi impongo quindi di affrontare un tipo di studio che nella vita di un musicista va di sicuro fatto, e mi giustifico facendo spallucce e dicendomi “meglio tardi che mai”.
Questo nuovo aforisma di oggi (nel video esibisco ancora una chioma indecisa tra il bianco e il nero, un dato che, sapendo che oggi sono tutti bianchi, permette di datarlo: è di qualche anno fa), come anche tutti gli altri, lo vedo quasi come un esame di riparazione per una insufficienza scolastica. Incidentalmente, ho scoperto che, studiando questo pensiero musicale di Coleman, la magia di quelle note per me non è andata affatto perduta, anzi: la sua musica (le sue idee musicali), anche se analizzata così da capire “il trucco” (e scoprire che non c’è), rimane sublime; quella di Hancock pure, e la mia pigrizia di un tempo, che all’epoca probabilmente aveva una sua ragion d’essere, oggi non può più avere spazio. Non posso più attendere di fare simili cose, di rimandarle a chissà quando.
E se è vero che, come dicevo all’inizio, non sono riuscito a trovare, quando dovevo farlo, il tempo, la voglia, ma soprattutto il modo giusto di promuoverlo in rete, a distanza di anni scopro che quella tensione, quei timori di non fare bene le cose mi hanno abbandonato del tutto, o quasi. Ho la sfacciataggine di chi ha poco o niente da perdere, quindi propongo, pubblico, diffondo.
E minnifùttu.
Angelo