Sono oramai trascorsi più di otto anni da quando Jean “Toots” Thielemans (1922-2016) è scomparso, ma il fascino della sua musica non ci abbandona.
Venerdì 29/11/2024 riproporrò al jazz club Miles Davis di Palermo alcuni brani del suo repertorio grazie ai quali avrò modo di dire qualcosa circa i momenti fondamentali della sua carriera.
Sarà dunque una serata all’insegna del romanticismo, ma anche della grande ironia e della grinta che, con proverbiale tecnica e creatività, il chitarrista, fischiatore, ma soprattutto il più importante interprete dello strumento “armonica cromatica” – anzi, forse colui che lo ha fatto diventare vero e proprio strumento jazzistico – ha dimostrato di possedere esibendosi al fianco dei più importanti esponenti del jazz, del pop e della musica da film.
Le idee che l’armonicista belga, naturalizzato americano, regalava per il tramite del suo aerofono, hanno ispirato generazioni di musicisti di lungo corso e tantissimi giovani che all’epoca stavano proprio decidendosi a intraprendere quella carriera. Tra questi, cresciuti anche grazie all’ascolto dei suoi dischi, vi erano pure il chitarrista Sergio Munafò, il contrabbassista Bino Cangemi e il batterista Jano Anzelmo i quali, divenuti nel frattempo eccellenti musicisti, venerdì mi sosterranno nel compito impossibile assegnatomi da Ettore Ballistreri, crudele art director del Miles: non farvi sentire la mancanza di un genio.
Questa è la seconda volta che, di fatto, mi ritrovo a tentare di fare un tributo al grande Toots.
La prima occasione è capitata il 4 maggio scorso, al jazz club Duke di Bari, ma si è trattato più che altro di una specie di lezione-concerto durante la quale ho provato ad attuare un confronto tra il modo di suonare l’armonica cromatica di Thielemans e quello della stella di prima grandezza del pop Stevie Wonder, altro specialista del mio strumento.
Sul manifesto di quella serata avevo fatto scrivere: Two view of a secret – L’armonica secondo Toots Thielemans, l’armonica secondo Stevie Wonder, parafrasi del titolo di un famosissimo brano col quale intendevo ricordare una tra le più celebri collaborazioni dell’armonicista belga con i grandi artisti dell’epoca: quella con Jaco Pastorius, nume tutelare dei bassisti elettrici.
Se, come dicevo più su, chiedendomi di organizzare questo tributo al solo Toots, quindi esponendomi al giudizio di chi la sua musica la conosce bene, il gestore del jazz club Miles Davis di Palermo si è rivelato beffardo e crudele, l’idea di fare la serata barese di Maggio fu dell’ancora più crudele Guido di Leone, direttore artistico del jazz club Duke: quella sera non avrei dovuto far sentire la mancanza non di uno, ma di ben due geni!
La formazione di quel concerto prevedeva lo stesso Guido di Leone alla chitarra1, Vincenzo Gentile al pianoforte, Giampaolo Laurentaci al contrabbasso, Fabio delle Foglie alla batteria ed Elio Arceri e Francesca Leone alle voci: due artisti assolutamente essenziali per proporre i brani di Stevie Wonder e le collaborazioni di Toots con Elis Regina e Mina.
Confesso che, pur ovviamente intrigandomi l’idea di omaggiare il grande Thielemans, non mi ritengo affatto il più adatto a rievocare la sua persona e la sua musica. Ho già raccontato in diverse occasioni come ho conosciuto i suoi dischi – tra le tante occasioni che ho avuto per parlarne, vale qui la pena citare l’intervista che ho rilasciato a Fabio Caruso, pubblicata sul numero 110 (aprile/giugno 2020) della rivista JAZZIT2 – ma forse non ho mai raccontato abbastanza bene come poi me ne sia allontanato.
Di fatto, si è trattato di un divorzio necessario, anche se non sufficiente.
Non sufficiente perché è normale che, per chi conosce la storia del jazz, vedere qualcuno su un palco con una armonica in mano faccia pensare automaticamente a un emule, inevitabilmente un tristo epigono, del grande Toots.
Necessario perché all’epoca, complice la mancanza di uno strumento di ricerca come il web, a parte il già citato Stevie Wonder, per molto tempo sulla scena non vi erano altri armonicisti jazz da prendere a modello.
I pianisti, i chitarristi, i contrabbassisti, batteristi, … hanno da sempre migliaia di “maestri”, veri o ideali, cui ispirarsi. Per gli armonicisti interessati al jazz o, peggio, alla classica e non al blues – di eccellenti violentatori di diatoniche il mondo è sempre stato pieno – non vi erano alternative: o si ascoltava il grande Stevie Wonder che capitava di sentire anche in radio, o ci si imbarcava nella difficilissima impresa (almeno in Italia, al sud Italia) di trovare i vinili di Toots.
Ricordo che, irrimediabilmente innamorato del disco Affinity scoperto quando avevo 14 anni, disco in cui il nostro duetta in modo magistrale con nientepopodimenoché il pianista Bill Evans – un dialogo comunque reso ancora più interessante dalla solidità di una ritmica incredibile composta da Marc Johnson al contrabbasso e da Eliot Zigmund alla batteria – a un certo punto iniziai a interessarmi al jazz a spettro più ampio.
In quegli anni conobbi, infatti, molti mondi sonori differenti. Si trattava di mondi in cui le linee suonate dai solisti erano molto meno delicate e tonde, erano decisamente più “sghembe”, taglienti, violente e, quando risultavano dolci, si trattava di una dolcezza diversa da quella di Toots. Lui rimaneva un faro, ma certe durezze, certi “fastidi sonori” (lo erano se confrontati con l’approccio alla musica tutto originale del belga) pian piano vinsero su di me, procurandomi piaceri di ben altro tipo.
Ed è così, quindi, che mi ritrovai ad ascoltare assiduamente John Coltrane, Dexter Gordon, Sonny Rollins, Freddy Hubbard, Cannonball Adderley, Winton Marsalis, Steve Coleman, John Zorn, … ma anche gli altri dischi in trio di Bill Evans, quelli in solo o in trio di Keith Jarrett, i capolavori di Chick Corea e di Herbie Hancock, i CD di Pat Metheny, … per poi scoprire anche i grandi poeti dell’ECM, in testa Jan Garbarek, John Surman e Nana Vasconcelos. Insomma, altri mondi, altri modi del tutto diversi di approcciare la materia sonora.
Stimolato, poi, ad andare in altre direzioni anche dall’ascolto congiunto di tanta, tantissima musica classica, in testa Bach e la musica tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX, mi sono ritrovato a divergere totalmente dalle suggestioni thielemansiane, evitando di fatto l’ascolto di quei dischi su cui avevo tanto sognato da adolescente.
Nonostante questo allontanamento, durante i miei anni universitari ho addirittura avuto modo di incrociare la mia armonica con la sua.
È successo per ben due volte: a Palermo, durante una jam al Teatro della Verdura (incredibile dictu: oggi vivo a due passi da lì, ed. è lì che ho conosciuto di persona Leonar-Dino Triassi e Luigi Ferrara) nell’estate del 1997 e al Naima di Forlì, nel 2004: un concerto regalatomi da Silvia, la mia ragazza dell’epoca, dove ho incontrato pure grandi amici come Red e Boogie Costa, Vince Vallicelli e il mai dimenticato, immenso armonicista cromatico Alberto Borsari che ci ha lasciati nel 2008. In quell’occasione, Toots invitò sia me che lui a raggiungerlo sul palco per suonare con lui. Difficile dimenticarsene.
Da lì in poi, ogni tanto capitava di sentirci. Gli inviai i miei primi due CD Quanta e Film ciechi per sapere cosa ne pensasse (ho una sua lettera “from the desk of Toots” nella quale mi dice in modo chiaro di preferire di gran lunga i miei lavori sperimentali – il riferimento qui era al primo CD – agli standard – qui parlava del secondo), ed è capitato che qualche volta io l’abbia chiamato, ma un paio di volte lo ha fatto pure lui. Ricordo che nel 2009, in una di queste sue (poche) telefonate mi fece sentire, ridendosela come un ragazzino per l’entusiasmo, come stesse ancora studiando All the things you are in tutte le tonalità…
Poi quella comunicazione, da diradata che già era, si interruppe del tutto. Lui ovviamente non chiamò più, e io stesso, preso da diversi cambiamenti nella mia vita personale e lavorativa, smisi anche solo di pensare di farmi sentire. In ogni caso ritengo che questo mio cambio di interesse, oltre che a problemi di ordine pratico responsabili del mio progressivo prendere le distanze da un certo modo di vivere la musica, sia stato dovuto anche ad altro che ora dirò.
Ricordo, tra le altre cose, che quando ci trovammo sullo stesso palco del Naima, parlottando tra un brano e l’altro, Toots mi disse la stessa frase che di tanto in tanto compariva come slogan sui suoi dischi: “I live between a tear and a smile” (detto con un filo di voce e percuotendosi il petto con il pugno); un motto dal quale prende piede il titolo del mio tributo di venerdì prossimo al Miles Davis.
A differenza di tutte le volte che l’avevo già letta sulle copertine dei suoi dischi (immancabilmente accompagnata da quel disegno di uno smile con la lacrimuccia), avere sentito “live” quella frase, stavolta commentata dalla mimica facciale e da quei suoi gesti ebbe il potere di farmi capire definitivamente quanto io con lui avessi davvero poco o nulla da spartire: non sto qui a dire tra quali cose si svolge la mia vita, ma di sicuro so che non sarei mai capace di elaborare un pensiero simile a quel suo motto e che, se mai avessi anche solo provato a dire qualcosa del genere, ne avrei ricavato una diagnosi precoce di diabete mellito acuto.
In aggiunta a tutto ciò, mi ero da tempo reso conto di quanto “pericoloso” fosse l’approccio di Thielemans alla musica jazz: credo davvero che per gli armonicisti lui abbia rappresentato qualcosa di simile a quello che è stato Bill Evans per i frequentatori degli 88 tasti, ovvero un precedente imprescindibile, da studiare, comprendere, quindi emulare nel tentativo di riproporre in studio e/o in concerto anche solo brevi, ma sapidissime frasi fatte proprie grazie all’ascolto ripetuto dei loro dischi e assorbiti fino ad avere i cervelli infeltriti da certe idee musicali e respiri sonori.
Entrambi, Toots ed Evans – forse mai titolo fu più azzeccato di Affinity per una collaborazione jazzistica come la loro – mi hanno sempre dato l’impressione di avere capito qualcosa in più degli altri; di avere colto cosa fosse davvero il bello in musica; di avere elaborato le idee più belle che un musicista potesse pensare; di avere compreso cosa fosse davvero degno di essere suonato; di avere avuto precisa contezza di dove porre una nota all’interno di una battuta, se più in qua o più in là, per far scoppiare nella testa dell’ascoltatore quell’effetto di perdizione e goduta vertigine che tutti prima o poi abbiamo provato incontrando la loro musica.
Tutto ciò a un certo punto mi risultò inaccettabile, schiacciante, da evitare.
Toots c’era, c’era già stato e, grazie alle numerosissime incisioni e alle orde di emulatori, sarebbe sempre esistito. Averlo conosciuto e avere appreso come fosse una persona del tutto diversa da me, mi convinse ad allontanarmi soprattutto mentalmente, oblieterandolo dai miei ascolti, per preferirgli idee e personalità più stronze, più carogne, incazzate, violente e ciniche, quindi più simili al sottoscritto.
Come già Freud, a proposito dello sviluppo della personalità del fanciullo, sosteneva parlando della necessità per un adolescente di uccidere la figura paterna per potersi così aprire alla vita alla ricerca di una propria collocazione nel mondo, dopo pochi anni dalla mia nascita nel mondo di Toots, me ne sono andato.
Dentro di me ho ucciso Thielemans, e l’ho fatto per compiacere compagnie di quelli che definirei geniali delinquenti, quindi compagnie più sporche; forse meno poetiche, non so, ma di sicuro più vicine alla mia natura.
Insomma, tutto ciò per dire che fare un tributo a Toots Thielemans equivale per me ad effettuare il classico ritorno sulla scena del delitto. Confesso, sono stato io. E l’ho fatto perché, come Urano che non faceva nascere i suoi figli, la sua musica mi opprimeva, rendendomi impossibile crescere e diventare me stesso, ovvero il nulla che molto genuinamente sono nel frattempo diventato.
Dopo questa doverosa commemorazione – mi sono così regalato un tuffo nel passato che di solito non ho tempo, né voglia di concedermi -, confesso che tutto questo panegirico mi serve soltanto come preludio al video che qui propongo: un nuovo aforisma sonoro dedicato al di Toots pensiero musicale che ho registrato un bel po’ di anni fa ponendolo subito su youtube, ma che non avevo ancora pubblicato qui su Doctor Harp perché procrastinavo il momento di scrivere ‘sto pippone che forse non avete letto fin qui.
Nel video riproduco il suo solo sul brano ‘sno peas: una bella quanto particolare composizione del pianista Phil Markowitz sulla quale il nostro sfoggia una tecnica e un gusto capaci di concorrere, per complessità e chiarezza di idee, pulizia esecutiva e agilità, con quella suonata dal sax tenore dell’iperbolico e torrenziale Larry Schneider, chiamato a dire la sua sullo stesso brano dopo le improvvisazioni di Thielemans ed Evans.
Il brano in questione è tutt’altro che banale. Chiaramente composto non per essere suonato sull’armonica (anche se un sapiente gioco di registro può condurre facilmente a fare cose interessanti e del tutto “in accordo” con le frequenti variazioni armoniche), mi suggerisce una sensazione di galleggiamento già solo per la scelta del tempo ternario sul quale in ben 10 battute su 16 le frasi del tema procedono per quartine, ostinandosi così a disegnare una figurazione da tempo regolare su un impianto ritmico di stampo irregolare.
La tonalità sembra proprio essere quella di Eb minore, anche se il sapiente uso degli accordi di diesis 9 e il frequente evitare di far cantare note che potrebbero rivelare la natura maggiore o minore dell’impianto, fa tornare pure nell’armonia quella sensazione di galleggiamento già riscontrata a livello ritmico, rendendo spesso il brano indeciso tra la generale “voglia” di stare nel mood minore e il bisogno quasi capriccioso di fare intravedere in alcune battute la possibilità di riversarsi nella solarità maggiore. S
Anche quando non dichiarato nelle sigle, troviamo nel tema – specie nella B – la stessa tendenza un po’ be-bop a “giggionare”, a girare attorno a note “stabili” degli accordi che potrebbero regalare all’orecchio punti di appoggio, preferendo indugiare quando sulle none, quando sulle quarte in modo da immettere una costante tensione nella melodia; una tensione che si stempera solo in alcune fermate, come sul sol nella quarta battuta che canta su un Cm7.
Se, parlando ancora di tonalità, si vuole proprio trovare una chiara “dichiarazione di intenti” del compositore, bisogna attendere l’ottava battuta dove il tema si sofferma sulla nona dell’accordo per poi transitare velocemente dal sol bemolle concedendo così all’orecchio un fugace appiglio utile a identificare il carattere prevalentemente minore dell’intero brano (in alcune sue trascrizioni, vengono esplicitati i sei bemolle in armatura, cosa che, unitamente alla presenza del primo accordo Eb 7 Diesis 9, rende più facile identificare in Eb- la tonalità).
Il tema, quindi, non fa altro che confermare quel moto ondoso dell’impianto ritmico. Specie nella B, fa sentire la presenza di centri tonali contigui cucendoli sapientemente col filo delle scale diminuite.
Termina qui questo outing meritevole in più punti di essere commentato da parte vostra con un sonoro Estica…! Facciamo che la cosa importante, se ve n’é una, qui è il video. Il resto è solo l’amarcord di un 56enne che a quanto pare, tra nostalgie e il bisogno di buttare giù autobiografie, sta invecchiando precocemente.
Angelo Adamo
- Fantastico chitarrista, amico fraterno da una vita. Con lui ho suonato in innumerevoli concerti, in tantissime formazioni, e in tanti dischi. Suoniamo entrambi in Memorie d’Italy, di Paola Arnesano (Phylology), in Quello che non si fa più, dell’indimenticabile Nino di Leone (Fo(u)r records), nel suo Duets (Fo(u)r), nel mio My Foolish harp (Red Records), nel nostro The night has a thousand eyes (Fo(u)r) ↩︎