Come tanti, forse tutti, ho conosciuto l’Adagio dalla suite del balletto Gayane di Aram Khachaturian grazie a 2001, Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: un film uscito nelle sale nel 1968 e che ho amato da subito per una lunga serie di motivi tra i quali anche l’incredibile sequenza di bellissimi brani usati per la colonna sonora.
Sì, perché, a parte la famosissima giocosità del valzer di Strauss Sul bel Danubio blu, oltre a questo Adagio, quel film ha avuto pure il pregio di farmi scoprire l’esistenza di altri capolavori come, ad esempio, Lux Aeterna di György Ligeti (che ora connetto indissolubilmente alle angosce, ma anche all’estrema bellezza di quel cosmo col quale ho scelto, per lavoro, di trastullarmi nel mio quotidiano).
In realtà, lungo il mio percorso formativo avevo già incontrato Khachaturian: al Conservatorio, durante il primo anno di pianoforte, il mio insegnante mi aveva proposto di portare al saggio di fine anno proprio un semplice brano del compositore armeno. Si trattava di una breve composizione di una pagina della quale non ho mai più trovato la parte; non ne ricordo nemmeno il titolo[1],
Di essa mi è rimasto in memoria solo il “sapore” deciso: aveva un forte carattere cromatico, lo stesso carattere che ha l’Adagio che trovate in video, tutto giocato su lievi smottamenti armonici capaci di farlo basculare attorno alla strada maestra: un fa minore dal carattere molto malinconico.
Di recente, girovagando per la rete, mi sono imbattuto nella partitura di questo brano orchestrale nella sua riduzione per viola e violino, e mi sono deciso a proporla qui, tra una invenzione bachiana e l’altra, così, tanto per insaporire la rubrica con nuove spezie.
Da un punto di vista squisitamente tecnico, il brano è facile ed è costruito così tanto bene che, anche suonandolo male…, suona bene. A una analisi più attenta, però, rivela delle insidie: se, nel caso dell’orchestra d’archi, non vi è qualcuno a dirigere e se, nel caso del duo, tra violinista e violista non ci si scambia gesti e occhiate di intesa, si rischia di mancare i vari appuntamenti in cui è importate attaccare la nota tutti insieme e con la stessa intenzione.
Sovraincidendo le mie armoniche, purtroppo non ho potuto godere né della presenza di un direttore, né di un mio alter ego col quale scambiare segnali adeguati in tempo reale. Certo, avrei potuto guardare il video di me che suono la parte della viola così da intuire per tempo quando entrare con le risposte del violino, ma per farlo avrei dovuto imparare a memoria la parte del primo strumento così da non dover guardare la partitura, e la memoria non è mai stata un mio punto di forza…
Chi mi conosce, sa già che un altro mio difetto è quello di non saper rinunciare a certe tentazioni. Mi piace pensare di essere in grado di scegliere di “fare le cose come vanno fatte”, ma proprio perché so che posso – e consapevole dell’esistenza al mondo di un sacco di persone che le fanno proprio così -. mi sento sempre autorizzato a scegliere di fare ciò che mi passa per la testa, fottendomene bellamente di ciò che invece viene ritenuto più opportuno fare. Ed è così che mi sono preso la libertà, durante gli scambi alle battute 36-38, di interpretare qualche nota in modo decisamente più bluesy; quelle battute sono, a mio parere, vere e proprie provocazioni; istigazioni a delinquere e a divertirsi.
E mi sono divertito un mondo.
Se ricordo bene, nel film di Kubrick l’Adagio di Khachaturian compare in un paio di scene, ma al momento sono sicuro solo di una: quella in cui un astronauta, forse lo stesso Bowman, si tiene in allenamento all’interno della nave spaziale vista fino a poco prima. In questa sequenza c’è tanto, forse addirittura tutto ciò che si può davvero trovare scavando fino a trovare i significati ultimi dell’intera pellicola.
C’è, ad esempio, il senso di vuoto cui di sicuro si va incontro nello spazio profondo e rappresentato dall’astronave solitaria e solatia, rischiarata dal Sole lontanissimo (se ricordo bene, la scena di svolge dalle parti di Giove) che la fa risaltare sul buio tutto attorno.
Dal minuto 1:27, la scena si sposta dallo spazio esterno a quello interno all’astronave. Seguendo le tipiche ricerche tecnologiche iniziate proprio nel secolo scorso a partire dalla domanda “come faremo un domani a vivere nel cosmo?”, gli ingegneri immaginarono modelli di stazioni spaziali e astronavi dotate di un modulo in rotazione col quale, tramite la forza centrifuga, ottenere uno “schiacciamento” sulla superficie esterna tale da riprodurre in toto, o almeno in parte, l’attrazione esercitata qui dal nostro pianeta [2].
Come molto ben descritto nel film, la presenza di una tale spinta verso l’esterno consentirebbe agli astronauti di camminare, o addirittura correre, così come lo facciamo sul nostro pianeta, e tra i tanti vantaggi offerti da una simile possibilità vi sarebbe pure che, muovendosi in modo pressoché normale, si eviterebbe il deterioramento dell’apparato muscolo-scheletrico.
Esso, infatti, sulla Terra si muove sempre a favore o contro la solita forza di gravità (con la quale ci rapportiamo dal concepimento fino alla morte, e anche oltre…) e, se fluttuassimo a lungo nello spazio senza attriti e resistenze varie, il corpo non si occuperebbe più di rifornire di calcio le nostre ossa e di nutrire tutti quei muscoli necessari proprio per deambulare nelle condizioni ambientali terrestri perché oramai divenuti inutili . Preferirebbe piuttosto occuparsi di altri organi, lasciandone altri alla progressiva perdita di tono, volume e forza in quanto parti del corpo non utilizzate o non sufficientemente stimolate, quindi superflue [3].
Quella scena è quindi emblematica, o almeno mi pare esserlo: c’è lui che fa jogging su una superfice circolare derivante, per quanto appena detto, da un tentativo di evitargli problemi causati dal suo ostinarsi a stare non sulla Terra, ma sul panno nero del cosmo. Agita le braccia come a sferrare dei pugni, ed è ovvio che lo faccia per tenere in allenamento la parte superiore del corpo, ma trovo davvero ridicolo quel gesto che qui sulla Terra, con 9,8 m/s2 di accelerazione di gravità, ai suoi simili lo farebbe forse apparire forte e minaccioso mentre lì, nelle condizioni di microgravità presenti pochi centimetri al di fuori del sottile spessore delle paratie dell’astronave e in totale assenza di nemici – se vogliamo, il vero nemico nello spazio è solo l’ambiente esterno che, con la sua densità approssimabile a zero, in pochi secondi farebbe esplodere il corpo di un astronauta non protetto da una tuta spaziale – lo rende implume allo sguardo oggettivizzante della cinepresa (o dell’occhio sempre attento del computer HAL 9000: una presenza che anticipava di 50 anni le angosce odierne dovute all’avvento della IA).
In conclusione, spero davvero che con l’ascolto di questa nuova “invenzione a due/tre ance”[2] io possa farvi idealmente fluttuare ancora una volta in quello spazio cosmico protagonista del film di Kubrik cullati, se non proprio dalla microgravità tonale, almeno da una gravità tonale meno intensa di quella che si esperirebbe con un normale brano in fa minore privo delle tendenze a librarsi libero negli spazi cromatici adiacenti che caratterizzanola composizione di Khachaturian.
Angelo Adamo
[1] Ho motivo di sospettare che si trattasse di Ljuba sta male, terza composizione del primo volume della raccolta Album for children.
[2] Si veda, a tal proposito, il bel libro di Giovanni Caprara “Abitare lo spazio”, Mondadori, 1998.
[3] https://www.esa.int/Science_Exploration/Human_and_Robotic_Exploration/International_Space_Station_Benefits_for_Humanity/Preventing_Bone_Loss_in_Space
[4] A questo si aggiungano pure i devastanti effetti dati dall’esposizione ai raggi cosmici che qui sulla superficie del nostro pianeta, a causa della presenza dell’atmosfera, arrivano in numero esiguo e depotenziati. Per poter vivere a lungo in una astronave senza incorrere in malattie generate dalla generazione del nostro patrimonio genetico stimolata dall’esposizione prolungata alle radiazioni estremamente energetiche che affollano l’esterno della nostra atmosfera, avremmo di fatto bisogno di una protezione equivalente a quella fornita dall’inviluppo gassoso che circonda il nostro pianeta. Si potrebbe ottenere qualcosa di analogo, con un cosiddetto “equivalente in acqua”: una intercapedine di circa 10 metri di spessore posta attorno a tutta la struttura e riempita con il nostro prezioso solvente naturale… Per saperne di più, si veda, ad esempio: https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC3401484/
[5] Sul finale si aggiunge al coro di voci anche quella della mia armonica Bassi Suzuki S-48 B con la quale suono quelle note troppo gravi anche per una 64 voci o che, presenti in partitura come parti di bicordi, proprio non possono essere suonate con una accordatura normale imponendomi l’intervento di un’ulteriore mio clone-armonicista.