L’armonica e il Jazz

Angelo Adamo

Il titolo che ho dato a questo breve scritto riflette il disagio che avverto ogniqualvolta mi trovo a dover discutere dell’ “armonica jazz”: una associazione tra le due parole che ha sempre il potere di farmi sentire un po’ in errore.

Quanto sto per dire potrà forse sembrare un’inutile pignoleria, ma me la si conceda: nonostante parlandone così, al bar, venga spontaneo a tutti, quindi anche al sottoscritto, dire “armonica jazz”, pensandoci bene preferirei usare la locuzione “l’armonica nel jazz”: di sicuro qualcosa di meno comodo e altisonante, ma che mi consente di descrivere meglio, e in modo più onesto, l’annaspare del nostro strumento nel mare magnum di un genere davvero vasto che accoglie noi armonicisti come fa con chiunque voglia farsi una nuotata in quelle acque.

Un mare balneabile, quindi, che però di certo con la musica prodotta dal nostro strumento non si identifica se non per l’operato di pochissimi interpreti di grande fama e vaglia, in testa il belga Jean “Toots” Thielemans.

Illustrazione che nel 2017 mi fu gentilmente richiesta da Paolo Santini per adornare l’aula di Armonica della “Scuola di Musica Moderna” di Ferrara dove nel tempo, ben prima di chi scrive, hanno insegnato lo stesso Santini, Gianandrea Pasquinelli e Paolo Giacomini

Discorso diverso credo valga invece nel caso dell’espressione ”armonica blues”: un modo di indicare l’uso di quel piccolo aerofono che trovo più appropriato; è noto, infatti, che la diatonica, suonata nei vari stili che ci ha descritto Gianni Massarutto nel suo seminario1, può di diritto sentirsi parte importante di alcune correnti di quel genere musicale in quanto piombata sulla scena americana ancora in tempo per poter “incidere” sullo sviluppo di quel genere all’interno del quale si è ritagliata uno spazio tutto suo.

Nell’affermarlo, la mente va a un periodo storico in cui per i musicisti neri meno fortunati, ma non solo per loro, desiderosi di esprimersi senza dover affrontare spese del tutto fuori dalla portata delle loro tasche, gli strumenti elettivi erano di sicuro la voce, la chitarra, il bidofono, qualche percussione povera come il washboard e la nostra armonica.

Più o meno negli stessi anni in cui per l’armonica blues si sviluppa il cosiddetto stile pre-war, nasce la cromatica e va da sé che il periodo in cui questo nuovo personaggio della famiglia degli strumenti ad ancia libera muove i suoi primi passi si sovrappone in parte a quello della diatonica, sua sorella maggiore, che già possedeva una sua tradizione ben consolidata.

Mi piace pensare che sili imitativi tipici del blues come il fox-chase e il treno – modi di suonare la diatonica nati chiaramente in un mondo rurale animato dai suoni tipici della campagna la cui calma piatta a volte veniva interrotta da battute di caccia o ferita, quasi, dallo sferragliare di sbuffanti treni a vapore – siano espressione dello stupore di chi abitava quelle contrade quando si trovava ad assistere ai passatempi dei ricchi possidenti o allo spettacolo offerto dalle novità tecnologiche in arrivo dai grandi, caotici e lontani centri cittadini.

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Vagoni diatonici

Uno stupore che di certo provava in misura alquanto minore chi invece viveva la sua quotidianeità standosene sempre immerso nel frastuono cittadino, tra grattacieli, strade trafficate, smog, semafori, folla, vita frenetica. Sospetto che in questo paesaggio sonoro fosse piuttosto la rara irruzione del silenzio ad attrarre l’attenzione, e non un rumore particolare, per quanto forte, fra i tantissimi che lì si sentivano e che colmavano l’orizzonte uditivo dei cittadini.

In questo ambiente urbano si svilupparono diversi stili nati, come è noto, dall’incontro felice della musica nera con altre tendenze musicali in arrivo dal vecchio continente. In particolare, dall’incrocio tra gospel, blues, spiritual, …, e musica colta europea pare abbia preso vita il jazz.

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La rumorosa e distorta motrice (matrice?) del blues

A questo incrocio di suoni ordinati e tradizioni consolidate aggiungerei, come si diceva, anche l’apporto dei frastuono entropico prodotto dalle città e dai poli industriali. Un frastuono la cui persistenza, che faceva da contraltare alla episodicità di simili eventi rumorosi in ambiente rurale, immagino abbia imposto una certa revisione del concetto stesso di suono, di armonia, di consonanza e dissonanza, di sinfonia e, in definitiva, di musica; basti, a tal proposito, pensare alle composizioni di Edgar Varese e a quanto nei primi decenni del ‘900 proponevano i futuristi italiani come Luigi Russolo2, inventore degli “intonarumori”, e Francesco Balilla Pratella.

Trovo alquanto normale, quindi, che nell’ambiente cittadino, a partire da un certo momento in poi, l’imitazione interessante da compiere sul nostro come anche sugli altri strumenti non sia stata più (solo) quella dei suoni delle solitarie periferie agricole e che una certa “attenzione mimetica” dei musicisti si sia concentrata soprattutto sulla riproduzione della sovrapposizione di rumori assordanti; delle parlate straniere, del mescolarsi di chiacchiere “dissonanti” e temi differenti e spesso sconnessi; delle urla smodate, degli scontri di idee e delle coralità organizzate dei cortei, nonché di tutto ciò che erano in grado di produrre strumenti come legni, ottoni, cordofoni, … di chiara origine bandistica e sinfonica, facilmente ascoltabili in ambito urbano: sassofono, tromba, trombone, clarinetto, pianoforte, violino, … (a proposito di imitazione del suono e del “piglio” di altri strumenti, consiglio l’ascolto di Larry Adler in una famosa circostanza fortunosamente documentata nella quale si trovò a suonare con Django Rheinardt3).

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Immagino quindi che gli armonicisti si siano trovati di fronte alla necessità di provare a imitare le voci degli altri strumenti, ma anche i generi musicali e i vari stili popolari importati dal vecchio continente che proprio in quel periodo stavano progressivamente facendo il loro ingresso sulla scena americana grazie al continuo apporto culturale fornito dal fenomeno dell’immigrazione.

Ad esempio, dall’ascolto del modo di improvvisare con ottave e accordi di Eddie Shu, al secolo Edward Schulman, sassofonista della formazione capitanata dal grande batterista Gene Krupa e citato, se ricordo bene, in una monografia dedicata a Toots Thielemans4 come il primo armonicista jazz della storia, si può capire come egli fosse stato chiaramente folgorato dallo stile fisarmonicistico di quegli anni: una influenza che potrebbe derivare

dalla musica francese e da quella italiana, entrambe giunte in america con i nostri nostri parenti andati lì a cercare fortuna. Inoltre, ascoltandolo, non si può fare a meno di notare che, pur essendo un sassofonista/clarinettista/trombettista capace di esprimersi col linguaggio tipico parkeriano di quegli anni, quando suonava la sua armonica cromatica, sceglieva di non fraseggiare come faceva sul sax tenore, preferendo piuttosto suonare “sezioni fiati” o scale arabe e naturali armoniche ottenute con un timbro molto classico, alla Adler, quasi a indicare che il nostro strumento era per lui un modo di evocare quando atmosfere tipiche del repertorio colto, quando e soprattutto suggestioni esotiche, lontane, orientaleggianti5.

Nel suo Jazz Harp6, forse l’unico libro su rapporto tra il nostro strumento e quel genere musicale – un titolo che introduce e, a parer mio, riflette proprio quel problema di cui parlavo in introduzione a questo articolo – Richard Hunter scriveva:

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il jazz è un nuovo mondo da esplorare per gli armonicisti e ha un solo eroe: Toots Thielemans e chiudeva il periodo affermando che, ne era convinto il meglio doveva ancora venire.

Dalla pubblicazione del libro di Hunter a oggi molti altri importanti personaggi si sono affacciati sulla scena mondiale, e ce n’è per tutti i gusti. A parte Stevie Wonder, che pur non essendo un jazzista, con la sua cromatica “canta” su strutture di sua composizione di certo classificabili come “jazzistiche”, possiamo citare il brasiliano Mauricio Heinhorn, il tedesco Hendrick Meurkens, gli americani Leo Diamond, Ron Kalina, William Galison, Mike Turk, Howard Levy; lo svizzero Gregoire Maret, il francese Olivier Ker Ourio, lo spagnolo Antonio Serrano e tantissimi altri provenienti da diverse parti del mondo.

A questo elenco di nomi mi piace pensare che sarebbe il caso di aggiungere anche quelli di eroi della terra di mezzo ai quali è toccato traghettare il nostro strumento da una sponda, quella blues, all’altra jazzistica. Per un elenco di simili personaggi rimando a testi più completi come, ad esempio, quelli di Krampert7 e di Pasquinelli8. Personalmente, da cromatico, trovo sia in tal senso pregevole l’apporto fornito da Paul Delay9, un bluesman di razza che con la sua musica non ha mai fatto mistero della fascinazione da lui subita per gli stimoli che gli arrivavano dall’ambito jazzistico.

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Anche se spesso, troppo spesso dimenticati a causa di una certa inveterata tendenza a esaltare tutto ciò che viene da fuori i confini del nostro bel paese, tra i paladini riconosciuti dell’armonica in ambito jazz sarebbe di sicuro il caso di annoverare anche molti italiani. Per evitare di incorrere in un classico problema di conflitto di interessi, preferisco comunque lasciare ad altri il compito di indagare sui nomi della nostra nazionale.

Quanto detto fin’ora conduce quindi ad affermare qualcosa che ha del lapalissiano, ma che ritengo davvero importante: studiare l’armonica jazz significa semplicemente studiare… il jazz tentando di imitare soprattutto quello prodotto da musicisti che armonicisti non sono.

Cosa esso davvero sia è un problema che, come si diceva più su,  ha a che fare con la bellissima storia dell’incrocio fra tradizioni musicali provenienti da varie parti del mondo e combinate insieme nella fucina americana.

Suonarlo, invece, è un problema che chiama in causa alcuni parametri musicali fondamentali come, semplificando un bel po’, l’armonia, il ritmo, l’accentazione e la pronuncia: quattro parametri, specie gli ultimi tre, capaci di rendere chiaro come mai spesso, piuttosto che parlare di jazz, si preferisca discutere di “linguaggio jazzistico” o di “idioma jazzistico”: si tratta infatti, e a tutti gli effetti, di una lingua: un linguaggio musicale con precise regole sintattiche e grammaticali, con una sua pronuncia corretta e varie inflessioni locali o dialettali; e ancora con cadenze, con modi di dire che spesso si ripetono, con aforismi da mandare a memoria, con detti (pattern), con stili narrativi e con classici della sua letteratura che ha subito e subisce di continuo contaminazioni provenienti dal contatto con altre culture “limitrofe”.

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L’analogia con la lingua e con un certo modo concitato e sincopato di raccontare vicende quotidiane vissute nelle stressanti e popolose città – un modo che, quando non si tratta di ballads, si pone chiaramente come alternativo a quello stanco e cadenzato tipico di molto blues – credo possa essere pienamente compresa notando come la tradizione jazzistica si muova perlopiù su un repertorio di brani, i cosiddetti standards, composti per il musical.

Si tratta quindi di composizioni che prevedevano un testo cantato e che, per questo, hanno continuato a dare una certa importanza alla figura del cantante jazz. Crooners e Ladies a parte, per cogliere appieno la similitudine tra un certo tipo di discorso parlato e l’improvvisazione, invito ad ascoltare non solo gli svolazzi scat di Ella Fitzgerald10, ma anche il cosiddetto vocalese: un genere promosso da vari personaggi, come ad esempio, Jon Hendricks11, i quali, per elaborare il loro originale apporto alla storia della vocalità jazzistica, credo siano partiti proprio dalla profonda similitudine esistente tra lingua parlata e improvvisazione, gettando forse le basi per altre correnti più tarde come il rap.

Per quanto detto fin qui, spero appaia dunque chiaro come suonare jazz risulti essere un gioco estremamente complicato e intellettuale di rimandi, sottintesi, citazioni al quale si giunge non certo senza un allenamento delle mani, delle dita, ma anche e soprattutto dell’orecchio; sì, perché bisogna ascoltare tantissimo, imparare interi assoli da cantare per meglio mandarli a memoria facendo proprie le note delle frasi (si parla anche e spesso di “fraseggio jazzistico”), i respiri e le loro interruzioni; il ritmo, l’accento, le intenzioni di solisti, compositori, arrangiatori e le risposte degli strumenti che accompagnano, accolgono o a volte contrastano le “provocazioni” di chi in quel momento si sta facendo carico di costruire il solo.

Spesso l’attenzione di chi decide di cimentarsi con questo genere è tutta e solo per le note suonate dai suoi beniamini, ma facendo seguito a studi scientifici che hanno messo in risalto come la comunicazione verbale pesi solo e sorprendetemente per il 7% della nostra comunicazione globale, ritengo che, rinverdendo la già suggerita analogia tra musica improvvisata e lingugaggio, si possa traslare questo dato numerico dalla linguistica alla musica supponendo che ritmo e accento, intenzione e sensazione abbiano molto di più da dirci delle note-parole di quanto non si sia portati a credere (tra l’altro, quando parliamo per strada con qualcuno, di sicuro non leggiamo un copione prestabilito ma “andiamo a braccio” improvvisando grazie alle parole che abbiamo imparato a usare, destreggiandoci con toni di voce quando pacati, dolci, sereni, quando più nervosi, aggressivi, preoccupati, … Praticamente improvvisiamo sulla “struttura armonica” dell’argomento della discussione. Più jazz di così…)

E poi c’è l’armonia: il contesto, l’orizzonte entro il quale si svolge la chiacchierata jazzistica.

Qualcuno potrebbe chiedere, “in cosa differisce una discussione del genere appena descritto da quello di un rocker, di un musicista pop o di un altro che suona musica celtica?”. L’armonia fornisce in tal senso un chiaro distinguo che ci viene in aiuto nel tentare di dare una riposta quanto più esaustiva possibile a questo quesito: l’armonia jazzistica, infatti, costruita com’è su accordi resi più complessi e sapidi di quelli usati negli altri generi musicali dall’uso di quadriadi, di “innesti” di note estranee alla tonalità che tengano alta la tensione espressiva e di strutture che rilanciano continuamente la discussione con l’introduzione di “aspetti” e “sotto-argomenti” sempre nuovi e non banali del discorso iniziale, è costruita in modo da stimolare idee di un tipo particolare, che possano condurre il musicista in direzione di una ricerca degli angoli più sconosciuti o meno battuti del tema iniziale. 

Il blues, il folk, la musica pop possiedono complessità in media abbastanza limitate. Pur subendo spesso l’influenza di stili più difficili, risultano essere tarati sui gusti e quindi sulla capacità di comprensione e di attenzione, di un pubblico che non ha un orecchio così abituato da riuscire a cogliere, e magari apprezzare, sfumature armoniche che a un orecchio non allenato potrebbero risultare come accrocchi cacofonici di suoni disordinati e forse anche fastidiosamente provocatori.

Temo di incorrere nelle ire di molti affermando qui che, a parte le solite eccezioni, il blues, parente stretto del jazz e di sicuro da annoverare tra i suoi genitori, contempla poche tecniche base, una armonia perlopiù semplice e ripetitiva e una marea di incredibili sfumature donate al repertorio dall’inventiva dei tantissimi musicisti che ne hanno costruito la grande storia. Il jazz, invece, è un mondo nel quale, pur eiissendo contemplata la ripetizione di molte cellule armoniche, il tessuto di accordi si arricchisce di innesti, direzioni, collegamenti, rimandi molto più complessi e capaci di aprire potenzialmente all’infinito le possibilità che si offrono al solista di costruire frasi musicali a partire dal terreno fertilissimo delle note degli accordi “sottostanti”.

Tornando a parlare dell’armonica, le tecniche da conoscere per suonare il blues sono importanti, necessarie, a volte difficili, ma sono comunque un repertorio limitato e numerabile: l’armonica blues ha un suo spazio preciso e possiede anch’essa una sua grammatica e una sua sintassi blues, nonché, ovviamente, anche sue dignità e necessità. Si tratta di uno spazio nettamente distinto da quello della chitarra blues, del pianoforte blues, ecc. e reso unico da una storia dello strumento diatonico – cui in seguito si unirà anche quello cromatico – molto articolata.

Di contro, l’armonica jazz, anzi, l’armonica nel jazz, non ha sue tecniche così nettamente distinguibili da quelle degli altri strumenti: non ci sono trucchi, come avverte Paolo Ganz il quale, descrivendo in un suo bellissimo libro le varie tipologie di armonicisti12, si lascia andare alla constatazione che

la metà di chi si accinge a imparare l’armonica crede fermamente che esista un trucco, una parola magica o una formula segreta grazie alla quale si possa apprendere ogni malizia senza la minima applicazione. (…) Per questi casi disperati c’è poco da fare: non avanzeranno mai nello studio perché saranno sempre tesi a ricercare il “trucco”, convinti che l’insegnante non voglia rivelarglielo.

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Progetto di cromatica del 1926, quindi successivo e variato rispetto a quello a suo tempo depositato come brevetto originale – Per gentile concessione di G. Massarutto

Con gli altri strumenti la cromatica (e la diatonica così come suonata da alcuni alieni di cui dopo avremo ancora modo di dire qualcosa) condivide tantissimo – fuorché la storia: se non sbaglio, questa tipologia di armonica è giovanissima, nata solo nel 1910 – e deve cercare di riprodurre quanto più può il linguaggio maturato col tempo grazie all’apporto dei vari musicisti che nei secoli li hanno imbracciati.

In introduzione al suo libro già citato all’inizio di questo articolo, il solito Richard Hunter riporta un modo di pensare condiviso da molti: “the harp is not designed in a way that makes jazz easy to play”, per poi prenderne le distanze pochi righi dopo. Riconosce che l’alternanza di note soffiate e aspirate – e, aggiungerei, il fatto che i salti tra note lontane siano ovviamente meno agevoli da eseguire sull’armonica di quanto non siano su altri strumenti nei quali si usano le dita – rende difficile ottenere il legato di chi colloca fluide cascate di suoni su un’unica emissione di fiato. Va da sé che cercare di riportare il linguaggio di Parker e Coltrane sull’armonica è chiaramente un obiettivo molto ambizioso, anche se non del tutto impossibile.

Hunter poi invita a fare in modo che “if harp players cant’ play jazz like sax players, than they’ll have to play their own kind of jazz, just as blues harp players play their own kind of blues”, un concetto che, come vedremo, trovava d’accordo anche il più grande vate dell’uso dell’armonica nel jazz.

Il nostro strumento, è cosa nota, presenta alcune innegabili limitazioni tecniche, ma offre pure alcuni vantaggi rispetto ad altri più blasonati, e lo dice ancora una volta l’autore di quel saggio unico nel suo genere, il quale sottolinea che “there are a lot of great sounds that can only come from the harp”. Pur essendo orgogliosamente d’accordo con lui, trovo che questo punto per noi non costituisca, e non credo dovrebbe costituire, un grosso vantaggio. Perché? Perché intendiamo qui parlare di jazz, ovvero di un idioma il cui statuto è stabilito da tempo.

Non intendo certo dire con questo che non sono ammesse deroghe alle regole dell’armonia e improvvisazione jazzistica, tutt’altro! Viva la creatività e il cercare nuove strade e sfide espressive, ma parlare quel linguaggio senza conoscere il repertorio di cose già dette da chi ne ha scritto la letteratura, allontanandosene senza prima averle fatte quanto più possibile proprie, credo equivalga a barare, a far finta di saper parlare bene quella lingua. Una pretesa che si rivela subito ridicolmente assurda quando ad ascoltare simili deliri è un madrelingua. E questo lo affermo anche se l’invito di Hunter a pensarla in modo leggermente diverso è chiaro: lui infatti sostiene che “jazz harp is not jazz: it’s harp”.

A sostegno di ciò che ho appena scritto, riporto ciò che Raymond Queneau13 ebbe modo di dire circa la letteratura e che, adattandolo al presente discorso, torna utile pure per parlare di musica e di armonica:

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Raymond Queneau

Un’idea falsa, che oggi è corrente, è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, espressione dell’inconscio e liberazione: tra caso, automatismo e libertà. Questa ispirazione, che consiste nell’obbedire ciecamente a ogni impulso, è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che egli conosce è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora.

Sempre in quel bellissimo libro, in una illuminante intervista, Toots Thielemans – sì, proprio lui! – riferisce che:

Every instrument does some things very easily, and some things poorly. When I worked on the Smackwater Jack album with Quincy Jones, at one point they transcribed one of my solos and gave it to the violonist Harry Lookofsky to play. The solo was fine for the harp, but Lookofsky couldn’t play it on the violin with the same accents and feeling. And this is a guy who can read and play practically anything: so I think that any instruent has limitations, and the harmonica isn’t any worse off that most. When the right players come along, it’ll happen; (…) The main thing Is that you have to play the things that sound good on the instrument, and not try to do the things that don’t come off right.

Sono in buona parte d’accordo con lui, e devo dire che la ricerca di ciò che suona bene sull’armonica e, ancora meglio, la ricerca di ciò che solo sull’armonica suona bene, trovo sia davvero eccitante.

Al contempo credo si debba riconoscere che se si ragionasse sempre così, non ci sarebbe mai stato un Howard Levy che ha letteralmente “violentato” il concetto stesso che si aveva di diatonica piegandolo alle sue esigenze tanto quanto è riuscito a piegare le ance del suo strumento, e io stesso non sarei mai stato autorizzato a compiere la mia personale ricerca sulla resa dei brani di Bach con la cromatica suonandoli senza sconti, ovvero cercando di attenermi quanto più possibile alla partitura originale scritta per altri strumenti. Come spesso è accaduto nel corso della storia umana, certi limiti di qualcuno o qualcosa, universalmente e pigramente riconosciuti come reali ed evidenti, una volta messi alla prova dei fatti dai più caparbi e insodddisfatti si sono rivelati frutto di supposizioni sì prudenti, ma a suo tempo non abbastanza soppesate e osteggiate.

E se anche l’ottimo Paolo Ganz, nel descrivere gli usi consigliati delle armoniche, scrive che la cromatica serve a suonare jazz, di sicuro è perché sa di riferirsi a un pubblico di non esperti e preferisce, quindi, semplificare le cose facendo finta di ignorare che esistono il già citato Howard Levy14 e Sebastien Charlier16 i quali riescono a essere addirittura più veloci e fluidi nel costruire complicatissime frasi di quanto non lo siano i più ginnici tra i loro cugini cromatici. Avviandomi a concludere questo breve articolo, che fa il paio con quello a suo tempo da me pubblicato qui in Doctor Harp a corredo dell’Aforisma musicale dedicato a Charlie Parker17, ci tengo a precisare che con con entrambi questi scritti intendo invitare gli armonicisti a non pretendere che il proprio strumento abbia finalmente una piena dignità riconosciuta dal pubblico quando sono spesso loro stessi a concedergliene una altalenante, con cicli che assecondano le loro stesse mutevoli esigenze e riparano le proprie mancanze.

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Con questo intendo dire che i primi a dover pensare sempre al nostro strumento come a qualcosa in grado di fare musica e non “musica con l’armonica”, sottintendendo così la locuzione più lunga, ma meno confessabile, “musica pensata per essere suonata con la povera armonica, quindi una musica indulgente verso i limiti che esso strumento presenta”, sono proprio gli armonicisti, ovvero persone che spesso tendono a nascondere dietro quelli dell’oggetto, limiti personali a volte ascrivibili solo a una grande pigrizia.

Mi spiego con un esempio.

Un sassofonista sa che il suo strumento gli consentirà di suonare le frasi più veloci che siano mai state pensate, ma sa anche che senza lavorare duro, esse non usciranno per il solo imbracciare quell’ottone. Conosco tanti che si cimentano col sax, ma che, consci di non essere capaci di suonarlo in modo corretto, evitano di esibirsi e di autodefinirsi jazzisti. Loro lo sanno bene: se non si affronta seriamente lo studio del sax, esso risulterà essere proprio così, ovvero null’altro che un bellissimo pezzo di metallo laccato.

Purtroppo l’aspirante sassofonista sa anche che verrà puntualmente sottoposto a un duro esame: tutti da lui pretenderanno tecnica, conoscenza del repertorio, stile, ecc, perché i suoi colleghi sono tantissimi, e tutti ricercano le stesse cose senza autoassolversi di fronte alle oggettive difficoltà che lo studio di un idioma e la sua traduzione in azioni pratiche e manuali da compiere con il corpo comporta.

Inoltre il nostro aspirante sassofonista sa che anche il pubblico ha molto ben presente cosa dovrebbe saper fare chi decide di suonare quel magico pezzo di metallo ricurvo: nella vita di chiunque è capitato spesso, per scelta o per puro caso, di sentire così tanti esempi di improvvisazioni suonate con un sassofono da poter dire con una certa sicurezza se chi ha davanti è un vero jazzista o sta solo millantando di esserlo.

Sono convinto che questo esempio – che mutatis mutandis, calza di sicuro anche per gli altri strumentisti non sassofonisti – basti a spiegare quale credo debba essere il giusto atteggiamento da tenere nel momento in cui si dovesse decidere di diventare un armonicista jazz e non di affermarlo semplicemente suonando l’armonica su brani della tradizione jazzistica, magari facendosi accompagnare da musicisti che invece sanno esattamente cosa stanno facendo. Chi bara in questo modo, confida nel fatto che il pubblico è abituato a connettere l’armonica a quel “coso” suonato (male) da cantautori che di solito la usano a mo’ di colore sonoro sapientemente aggiunto a un bel quadro dipinto con pianoforte, chitarra, basso, batteria (suonati benissimo).

Il nostro armonicista giézz allora si cela dietro il classico dito, confidando sull’ignoranza del pubblico circa cosa il nostro strumento davvero potrebbe fare, sicuro di sorprendere già solo per l’ardire di cimentarsi sull’armonica con un genere notoriamente difficile e chiedendo quindi comprensione per gli errori e gli orrori, per il fatto che è lo strumento a condurlo, non senza incidenti a dir poco rovinosi, lungo il brano e non l’inverso, e per la pochezza delle sue idee solistiche: in fondo, non è colpa sua! È l’armonichina a essere un giocattolo, no?

parziale discolpa degli armonicisti giézz, registro anche una certa collusione spero involontaria di alcuni giornalisti (pochi, a dire il vero) che nel recensire dischi di altri strumentisti sfoggiano una conoscenza del panorama culturale di riferimento vasta e capillare grazie alla quale fare la classica e desiderabile “punta agli spilli” ma poi, trovandosi a recensire i dischi degli armonicisti giézz, sembrano cambiare del tutto i propri parametri di riferimento riscalandoli, adeguandoli in minore, al presunto handicap che il nostro strumento, per una tacita ammissione di quei nostri sedicenti colleghi, pare si debba portare dietro: tutto a un tratto assenza di swing, di pronuncia, di fraseggio, di riferimenti, di linguaggio e, in definitiva, … di jazz, viene fatta passare come scelta stilistica, punto di forza, qualcosa da ammirare e premiare. E, come per magia, quei dischi, ascoltabili solo nelle parti in cui l’armonica tace, divengono capolavori da premiare di sicuro. Roba da fare inferocire innanzitutto i sassofonisti, trombettisti, pianisti, chitarristi, batteristi, contrabbassisti, … ai quali difficilmente vengono fatti simili sconti. E poi noi armonicisti.

In conclusione, qualsiasi sia il genere che si decida di suonare professionalmente con l’armonica (conto di parlare presto anche dell’armonica che si confronta con il repertorio classico), suggerirei di affiancare all’amore per il bellissimo oggetto che si è scelto per esprimersi, anche le necessarie voglia e onestà di diventare non un armonicista – a mio modo di vedere, dato il gran numero di declinazioni spesso discutibili di questo ruolo, lo ritengo un obiettivo non così elevato -, ma un musicista professionista.

Un musicista che incidentalmente, per motivi suoi aventi a che fare con stimoli familiari, gusti estetici, incontri casuali o chissà cos’altro, ha scelto di suonare l’armonica.

Può non sembrarlo, ma vi assicuro che è tutt’altra cosa.


Biblio-Video-Sito-Grafia

1) Massarutto, Gianni:
https://www.youtube.com/watch?v=Fw_LAp04YfA

2) Russolo, Luigi, L’arte dei rumori, Edizioni Futuriste di “Poesia”, Milano, 1916

3) Adler, Larry: https://it.wikipedia.org/wiki/Larry_Adler
Ascolti consigliati:
https://www.youtube.com/watch?v=STuJHuOo_Q8

4) Thielemans, Toots, Collana I grandi del Jazz, Fabbri Editore

5) Shu, Eddie: https://en.wikipedia.org/wiki/Eddie_Shu
Ascolti consigliati:
https://www.youtube.com/watch?v=EiCNZXZ947I

6) Hunter, Richard, Jazz Harp, Oak Publications, 1980

7) Krampert, Peter, The Encyclopedia of Harmonica, Mel Bay

8) Pasquinelli, Gianandrea, Soffiando e risoffiando, Autopubblicazione, 2015

9) Delay, Paul: https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_deLay
Ascolti consigliati:
https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_deLay
https://www.youtube.com/watch?v=4TQQitNBCms
https://www.youtube.com/watch?v=X0wS3kD2MYM
https://www.youtube.com/watch?v=dk6H8dIWoJU
https://www.youtube.com/watch?v=gWepAFBqsN4

10) Fitzgerald, Ella: https://it.wikipedia.org/wiki/Ella_Fitzgerald
Ascolti consigliati:
https://www.youtube.com/watch?v=1GUmxnYheK0

11) Hendricks, Jon: https://it.wikipedia.org/wiki/Jon_Hendricks
Ascolto consigliato:
https://www.youtube.com/watch?v=jKAVgM82-gs

12) Ganz, Paolo, Armonicomio, Fernandel, 2012

13) Queneau, Raymond, citato in Fiabe esatte, di Gianni Zanarini, Doppiavoce, 2020

14) Levy, Howard, https://it.wikipedia.org/wiki/Jon_Hendricks

15) Charlier, Sebastien, https://en.wikipedia.org/wiki/S%C3%A9bastien_Charlier

14) Adamo, Angelo, Aforisma 5: Charlie Parker Dixit
https://www.doctorharp.it/aforisma-5-charlie-parker-dixit/


Angelo Adamo

Contatti:
Email: info@angeloadamo.com
Web: https://squidzoup.com

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