Aforisma 3: Phil Woods Dixit


blank

Forse è triste sapere che, nonostante la gran mole di cose interessanti dette o i tanti sforzi fatti per cercare di dirne, si viene ricordati quasi esclusivamente per quelle che riteniamo più banali.

Nel mio piccolo, anche io mi sono trovato in una situazione simile. Quando ci penso, scopro di vivermela in modo altalenante: a volte la cosa mi butta giù, altre mi esalta e ringrazio il caso o chissà cosa per avermi fatto fare quell’azione dal valore per me così controverso.

Mi sa che ogni tanto bisogna “indursi stanchezza”. Intendo con questo dire che, quando se ne presenta l’occasione, bisogna regalarsi la possibilità di sentirsi stanchi di lottare rassegnandosi a ciò che la collettività ci dimostra essere un’evidenza: quando si viene chiamati a dare un contributo al lavoro altrui, può capitare di riuscire meglio di quando si lavora per sé, in piena libertà, senza paletti, compromessi e costrizioni.

Si riesce meglio o forse, semplicemente, si è più semplici, più facili da capire per un pubblico più vasto ed eterogeneo. Può essere un bene, può essere un male. Certo è che se non ci chiamassero mai, se non ci invitassero a mettere il naso fuori dal nostro guscio, si rimarrebbe sempre a marcire dentro noi stessi, incapaci di vedere il mondo da un punto di vista diverso.

Forse anche il grande alto-sassofonista Phil Woods ha vissuto qualcosa di simile quando si è reso conto che, pur avendo detto in musica cose eccezionali, da moltissimi verrà ricordato esclusivamente per il suo assolo sul brano Just the way you are di Billy Joel.

In una intervista rilasciata a Marc Myers e pubblicata su JazzWax, Woods raccontò che ancora veniva fermato per strada da chi lo riconoscva come “quello che ha suonato con Joel”:

People come up to me all the time to ask me about that. My favorite was the young saxophonist who came up to me on some gig I was playing and said, “Are you the guy on the Billy Joel record?” I said, “Yes I am.” He said, “Have you done anything on your own.” [laughs] I said, “A couple of things”.

Pubblicato nel 1977 nell’album The Stranger, a nove anni, completamente rapito, ascoltavo Just the way you are alle feste di mia cugina Felicia di quattro anni più grande di me. Se lo scrivo, non è certo perché voglia far credere che all’epoca fossi così tanto cosciente di ciò che quel brano generasse in me.

Ancora bambino, non mi era chiaro nemmeno che dopo due-tre anni avrei iniziato a suonare. Fatto sta che di quelle feste, oltre al mio perenne innamoramento per le ragazze più grandi che lì incontravo e che avrei tanto voluto invitare a ballare (ma che non ebbi mai il coraggio di avvicinare…), ricordo molto bene i brani dei Bee Gees e questo di Billy Joel.

Detto per inciso, due anni dopo sarebbe toccato a me dare delle feste di compleanno o andare a quelle dei miei coetanei, ma già la musica era cambiata: per fortuna si ballava ancora su canzoni come Do ya think I’m sexy di Rod Stewart, ma poi immancabilmente qualcuno metteva sul piatto anche i dischi di Viola Valentino e Pupo…

Il successo che Just the way you are all’epoca riscosse, fu tale che l’anno successivo anche Barry White decise di farne una sua versione prolungando la vita del brano di Joel e dandomi modo di sentirlo ancora alle feste per diversi anni. Senza nulla togliere alla  versione dance di White, la bellezza dell’originale rimase comunque infissa nella mia memoria e col passare degli anni e col mio progressivo interessarmi alla musica, divenne per me via via più facile dipanare la matassa emozionale che connettevo a quelle note nel tentativo di capire come quella magia fosse stata costruita.

Innanzitutto era una canzone americana, e all’epoca tutto ciò che veniva da oltreoceano esercitava un fascino irresistibile su chiunque. Poi, una volta imparato a mettere le mani sul pianoforte, divenne chiaro cosa apprezzassi di quel brano: oltre alla provenienza “esotica”, il suo ulteriore carattere vincente era di sicuro l’armonia.

Per nulla banale, assomigliava nei movimenti degli accordi e nella modulazione dell’inciso agli standard che si suonano tutt’ora in ambienti jazzistici. Per chi come me muoveva i primi passi nel mondo della musica suonata, scoprire che accanto ai giri armonici classici, vi erano quelli di Stevie Wonder o questo di Billy Joel che iniziava con un accordo di Mi minore settima quinta bemolle con basso Re che urlava vendetta, pretendendo a gran voce una soluzione sul Re maggiore che non si faceva attendere, voleva dire trovarsi di fronte a un universo che chiedeva solo di essere esplorato, promettendo di non finire subito dietro l’angolo.

Infine, come ciliegina su questa torta a stelle e strisce cucinata con una ricetta armonica di prim’ordine, vi era l’arrangiamento estremamente equilibrato costruito con chitarra ritmica, piano Rhodes (d’obbligo in quegli anni), basso, batteria, percussioni, sezione archi e assolo di sassofono contralto.
Il clima jazz del brano era quindi esplicito, ma, qualora ve ne fosse stato bisogno, veniva confermato dal suono e dalle note che Phil Woods aveva scelto per dire, a modo suo, Just the way you are.

Phil Woods era un parkeriano purosangue, e questa sua eredità appare evidente dalla visione dei suoi video e dall’ascolto dei suoi dischi, stranamente difficili da trovare a Bologna.

Ne possiedo giusto uno, Just Friends, in cui l’alto-sassofonista viene accompagnato da Renato Sellani e Massimo Morriconi, ma purtroppo questo suo lavoro non mi piace per vari motivi. Uno di essi è che i tre mi sembrano non essere perfettamente accordati, e non sto certo parlando di affiatamento, ma proprio di frequenze. Degli altri motivi invece taccio per non inimicarmi la comunità dei jazzisti con considerazioni che potrebbero risultare pericolosamente contro corrente.

Tra le tracce di Just Friends vi è anche una Billie’s Bounce nella quale, quasi a conferma di ciò che si è sempre detto di lui, ripropone intere frasi del solo che Parker ha registrato sullo stesso brano. Detto in altre parole, lì Woods suona aforismi

Nel brano di Joel invece Woods dimostra qualità che raccontano, oltre che la grande dimestichezza con lo strumento (che scoperta…), l’incredibile padronanza del materiale musicale. Una padronanza che non gli veniva certo dall’aver studiato per giorni su quella struttura armonica, ma che possedeva per il semplice fatto di avere molto chiaro in testa cosa sia la musica. Una chiarezza che durante l’intervista espresse nel seguente modo:

JW: Did you hear the Billy Joel song before you went into the booth?
PW: Yeah, of course. It was just me and Phil Ramone. He played me the track and showed me the music.
JW: Did you work on the solo concept before recording?
PW: I’m a professional musician. I sight read and play it. That same day I had recorded on Phoebe Snow’s Never Letting Go, also produced by Phil.

La moderata velocità del brano e, anche se declinata in un brano pop, la sua chiara ispirazione jazzistica, fa sì che in quel brno a mio parere venga fuori il musicista più vero che è in lui. Quello che la lezione di Parker l’ha digerita e che ora, satollo, parla finalmente il suo linguaggio più vero.

Nelle sedici battute che gli sono state affidate dal produttore Phil Ramone, le sue figurazioni si assestano abbastanza omogeneamente sugli ottavi, con i quali Woods riesce a dare l’impressione di aver fatto molto più di quello che ha effettivamente suonato, come si scopre trascrivendo il suo semplice assolo.

Pochissime semiminime, qualche terzina, qualche pausa e una gran quantità di pure, semplici crome, danno l’impressione che egli abbia eseguito chissà quali virtuosismi sia melodici che ritmici. Andando a guardare lo spartito, si scopre invece che si tratta solo di un sapiente porre nei punti “nevralgici” della battuta le note che possono conferire un significato in più a quanto suona, dando l’impressione che si tratti di accenti quando invece sono sempre e solo note dalla intensità e dalla durata uguale, sempre quella: ottavi.

Il discorso cambia sulla coda: lì il demone bopparolo riprende piacevolmente il sopravvento ed è giusto che sia così, ma, a mio parere, le sedici battute precedenti costituiscono la vera perla che l’ostrica Just the way you are ha generato.

A Phil Woods è stato richiesto più di seicento volte di essere se stesso su dischi di altri. Per tutte e seicento “è stato molto Phil Woods”.

Phil Woods ha poi chiesto a se stesso di essere… se stesso un’infinità di altre volte. Ogni volta che lo ha fatto, ha ottenuto di somigliare molto a Charlie Parker.

Il mio studio da ora in poi sarà cercare di capire se trarre o meno un’insegnamento dal suo solo, ma anche da questa semplice storia.


Dedico questo post al mio carissimo amico Alberto Nagy, musicista col quale in passato, durante i miei anni di studio padovani, ho suonato spesso il brano di Joel

Per leggere l’intera intervista a Woods:
http://www.jazzwax.com/2009/02/interview-phil-woods-part-4.html


Angelo Adamo

Contatti:
Email: info@angeloadamo.com
Web: https://squidzoup.com

💥 HarmoniCa Mundi 💥