AFORISMA 1 – STAN GETZ DIXIT

Angelo Adamo


Tempo fa ho proposto questa serie di “aforismi musicali” all’interno del mio Blog. Immagino che la maggior parte degli utenti di Doctor Harp non l’abbia saputo e questo mi spinge a ripubblicarli in “HarmoniCa Mundi”, intervallandoli con gli altri articoli di carattere differente che già mi ero prefissato di scrivere. Nel ripubblicarli non mi limiterò a fare un semplice “copia e incolla”, ma apporterò qui e là alcune variazioni che, rileggendoli a distanza di tempo, sento necessarie, specie sapendo di parlare stavolta a un consesso di musicisti con esigenze e competenze mediamente diverse da quelle di chi mi segue altrove. Una volta riproposta l’intera serie, la continuerò aggiungendo di tanto in tanto nuovi aforismi incentrati sull’analisi di altri brani che da tempo conto di affrontare.

L’assolo di Stan Getz sugli accordi di O grande amor fa parte di quella lunga serie di idee che hanno condizionato il mio modo di intendere la musica in generale e il jazz in particolare.

Contenuto nello storico disco Getz/Gilberto, lo ascoltavo quando capitava di andare a casa dei miei zii Francesco e Ornella. Lui aveva una collezione invidiabile di LP dalle bellissime copertine e Getz-Gilberto era uno dei suoi, quindi dei miei, dischi preferiti: all’epoca avrò avuto 11 o 12 anni, quindi mi trovavo ancora nel pieno di un processo di emulazione di alcuni modelli comportamentali che non lasciava scampo.

Davanti a un napoletano verace che cantava (un cliché), strimpellava il piano, la chitarra e l’armonica e che, come anche i miei genitori, amava la musica sinfonica, la lirica, il jazz, … ma che, a differenza dei miei genitori, aveva uno stereo (no, noi non l’abbiamo mai avuto) sul quale faceva suonare i suoi 33 giri a tutto volume, c’era poco da fare. Bisognava arrendersi. E mi sono arreso.

Come si evince facilmente dal titolo, in quel vecchio disco suonava il sax del musicista statunitense il quale spesso ricamava incredibili melodie impiegando solo una frazione del fiato da lui insufflato nello strumento. Il resto finiva tutto ai lati dell’imboccatura – almeno questa è l’impressione che ancora mi regala l’ascoltarlo – dando alle note del suo tenore un’”aura d’aria”, un “soffiato” che ne addolciva ulteriormente il suono.

Sulla scorta dell’entusiasmo che quel disco mi aveva suscitato, ho ascoltato altri lavori di Getz e uno, quello registrato in duo con Bill Evans dal titolo enigmatico (Stan Getz & Bill Evans), l’ho pure comprato a scatola chiusa: due nomi del genere non potevano che essere garanzia di goduria uditiva!

Mi accorsi così che la magia del suono e delle idee di Getz erano per me contenute solo in quel primo disco con Joao Gilberto alla voce e alla chitarra, Antonio Carlos Jobim al piano e con la voce aggiuntiva di Astrud Gilberto. Negli altri suoi lavori, il mondo di Getz non mi piacque affatto e il mio rifiuto per la poetica in essi contenuta mi faceva risultare il suono di quel sax acidulo, addirittura. Mi ricordava quello grezzo e immaturo di un sassofonista classico alle prima armi, quindi non certo meritevole di un ascolto prolungato.

Come si può intuire, il problema stava in me e non certo nel modo di suonare di Getz, anche se ancora oggi, dopo averlo ascoltato in tante altre registrazioni, continuo a credere che la bellezza delle sue idee musicali contenute in quel disco sia il frutto, non solo della grande genialità del tenorista, ma soprattutto dell’incontro fortunato con altre menti, con altri pensieri affini al suo quali di sicuro sono stati quelli dei sudamericani prima citati (Getz aveva una certa predilezione per le atmosfere bossa nova).

A rendermi difficile accettare altri suoi dischi che non fossero quello, vi era anche l’unicità dell’atmosfera gioiosa di molte domeniche con nonni, zii e cugini – non credo sia un caso che da quegli ascolti sono nate professionalità nella musica per ben tre di noi nipoti… – di cui Getz-Gilberto era spesso colonna sonora.

Forse gli altri dischi di Getz erano tutti affetti dallo stesso problema: non erano presenti in quella particolare discoteca familiare, disponibili per sottolineare grandi abbuffate condite da risate e chiacchiere rilassate.

Capitava spesso che i sottofondi musicali di quelle Domeniche fossero brani di musica classica (di alcuni di essi parlerò prossimamente) per i quali, guarda caso, vale lo stesso discorso fatto fin qui a proposito del disco Getz/Gilberto.

Qualsiasi sia stata l’origine della magia nata attorno a quell’LP che ho ascoltato fino alla noia, ancora oggi esso risulta per me così tanto importante da voler iniziare questa serie di aforismi musicali proprio con quelle note.

Tempo fa trovai un libro con le trascrizioni di alcuni assoli del grande tenorista e, con mia grande sorpresa, scoprii che molte erano tratte da brani contenuti nell’LP citato. Mi sa che in futuro proporrò altri pensieri getziani prendendoli da lì.

Purtroppo tra gli standard di quel disco scelti dal trascrittore, non vi era O grande amor, il mio preferito, ed è per questo che mi sono sentito chiamato in causa: dovevo colmare questa lacuna facendo l’esercizio che tutti i didatti dicono essere fondamentale per la formazione del giovane jazzista (chiaramente qui si parla di me…).

Ho anche un altro bellissimo ricordo connesso con O grande amor. Moilti anni fa giravo con una formazione barese che proponeva un repertorio interamente brasiliano. Paola Arnesano ne era la bravissima cantante e ad accompagnarla, oltre me all’armonica, c’erano Guido di Leone, grande amico e chitarrista col quale ho registrato My Foolish Harp (RED RECORDS, 2009) e l’ultimo The Night Has A Thousand Eyes (Fo(u)r, 2014). Sul palco con noi vi erano poi Paolo Romano al basso elettrico e il pirotecnico Michele Vurchio alla batteria.

All’epoca proposi di aggiungere anche questo brano di Jobim al già nutritissimo repertorio di Paola e Guido. Accettarono tutti di buon grado e così coronai il sogno di suonarlo e di farlo nel contesto giusto, sperando ogni volta (invano) di essere capace di creare con la mia piccola chromonica 270 – all’epoca tre ottave mi bastavano – una magia degna di quella di Getz.

In O grande amor, il tenore sembra quasi suonare un’improvvisazione tematica, andando a costruire una linea melodica che definirei “necessaria”. Mi dà quasi l’impressione di essere in presenza di un brano nel brano: un pensiero musicale così lucido e pulito da riuscire a competere – forse vince, addirittura – con la bellezza del tema propriamente detto.

In realtà è sempre così o quantomeno è così che dovrebbe sempre essere: free jazz e altri generi affini a parte, improvvisare è fondamentalmente comporre all’istante su un materiale armonico prefissato. Trattandosi quindi di composizione nella composizione, il “discorso musicale” che emerge si spera abbia una sua logica e una sua coerenza interna traducibili in termini di equilibrio tra l’introduzione, lo sviluppo e un degno epilogo del pensiero musicale. Dovrebbe essere un discorso, anzi, meglio: una narrazione curata nella sintassi, nell’intreccio e nel suo sviluppo.

Tali similitudini con l’ambito letterario non capitano a caso: ho intitolato “aforismi” questi miei interventi proprio per analogia con frasi celebri di romanzieri, scienziati, poeti, … che spesso amiamo citare. Si tratta di pensieri con un loro significato profondo, dal grande valore quando morale, quando informativo, quando di altro tipo.

Ecco, intitolare “aforismi” questi interventi svela la mia intenzione: vi invito a riguardare gli assoli e i passi che riporterò come pensieri elaborati da grandi menti di jazzisti, compositori e arrangiatori che hanno molto da insegnarci sulla vita musicale.

Mandarne qualcuno a memoria per eventualmente citarlo al momento giusto potrebbe essere interessante tanto quanto ricordare passi di letterati, filosofi, scienziati, … che riteniamo degni di essere studiati sui banchi di scuola.

In fondo, il cevello che elabora pensieri musicali è lo stesso che in altri casi ne elabora di poetici, matematici, economici, … e credo si compia un delitto a voler vedere sempre e soltanto la musica come un prodotto del solo istinto più o meno educato dallo studio; come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con una sfera oscura e impenetrabile dell’inconscio di una particolare sensibilità artistica.

Come è noto, dietro un assolo ben fatto c’è sì istinto e sensibilità, ma anche tanta, tantissima cultura, esercizio, fatica, studio, pensiero e sue revisioni, correzioni, ripensamenti.

Insomma, la musica è di sicuro pensiero e i musicisti “scrivono”, “disegnano”, “filmano” esattamente come i poeti “suonano”, “cantano” e così via, di analogia in analogia.

Tornando all’assolo di Getz, mi corre l’obbligo di fare una precisazione: nonostante sia una linea molto semplice da suonare, si scopre che rendere con una trascrizione le reali intenzioni del solista sia cosa per nulla banale.

Si consideri pertanto lo spartito che propongo come una semplice traccia utile per provare a eseguire il solo all’unisono con il suo autore usando uno strumento in C come la mia armonica cromatica (stavolta, come si vede dal video, si tratta di una a 64 voci).

Interessante sarà anche notare come la scelta di Getz si è focalizzata su note perlopiù contenute negli accordi del brano. Una scelta che mi ricorda quella michelangiolesca di vedere i blocchi di marmo alla stregua di strutture già contenenti in nuce la forma che lui poi andava a svelare, a “liberare” da tutto il materiale da lui considerato “in esubero”(*), quasi fosse rumore da sottrarre per un corretto ascolto della sua musica scultorea (sì, Angelo, però ora basta con ‘ste analogie, ok?).

Vi invito quindi a riguardare gli accordi di qualsiasi brano come contenitori grezzi di un gran numero di melodie, per la maggior parte simili, ma al contempo tutte completamente differenti le une dalle altre.

Quandanche, infatti, le note di due assoli fossero del tutto uguali tra loro, i volumi, le intenzioni, l’enfasi, gli attacchi, gli accenti usati nel pronunciarle, nonché il peso o la leggerezza dati alle frasi, … risulterebbero essere parametri capaci di rendere ogni assolo unico, impossibile da ripetere perfettamente uguale anche per chi dovesse decidere di autocitarsi.

Osservando attentamente la sequenza delle note e mettendola battuta dopo battuta in relazione con l’armonia, sarà facile notare come l’assolo sia in buona parte costruito su arpeggi ascendenti, completi o parziali, degli accordi usati e dei loro rivolti.

Quanto appena detto è particolarmente evidente nelle battute 1 (arpeggio dell’accordo di La minore a partire dal quinto grado), 6 (arpeggio di Fa diminuito, anche stavolta suonato a partire dal quinto grado), 8 (un semplice arpeggio della triade di La maggiore), 19 (arpeggio di Sol minore sesta che sfrutta la settima come nota di passaggio), 24 (di nuovo un arpeggio di La maggiore a partire dal terzo grado).

Quando non si tratta di arpeggi, poco ci manca: Getz sceglie di suonare le note della scala maggiore o delle minori associate ai vari accordi o di soffermarsi su quelle che più delle altre danno quel “sapore” particolare a un certo passaggio del brano.

Si tratta di veri e propri “nervi scoperti” dell’armonia sui quali si addensano maggiormente le tensioni uditive capaci di attirare l’attenzione del nostro orecchio rendendo tutto più interessante, ma facendoci anche desiderare una distensione, un rilassamento che in musica viene detto “risoluzione” e che sta a indicare un ritorno della melodia alla tonica o a una delle note della triade su di essa costruita.

Queste tensioni, opportunemente introdotte, fanno apparire come un regalo la scelta di suonare subito dopo note più “confortevoli” che senza le tensioni precedenti forse apparirebbero banali e che invece, dopo aver insistito su quelle deviazioni da un discorso troppo ortodosso e asettico, acquistano il valore di scelte necessarie, opportune, belle.

Parlo di punti come ad esempio le battute 23 e 26 dove il soffermarsi rispettivamente sul fa naturale e sul mi bemolle sottolinea dinamiche particolari.

Nel primo caso, il fa naturale tenuto per ben tre quarti rappresenta il raccordo perfetto tra il precedente Fa diminuito e il La quinta aumentata sul quale insiste (per capire meglio l’incastro armonico, inviterei a riguardare il fa diminuito come un E7/9b che risulta essere così la dominante di La).

Un fa che non chiede altro che essere lasciato libero di cadere sul quinto grado dell’accordo di La maggiore che puntuale arriva a battuta 24, andando così ad allentare la tensione caratterizzante le due battute precedenti.

Il mi bemolle di battuta 26 invece ha un valore del tutto diverso: mentre il sassofono canta in alto, esso rompe lo schema e intercetta più in basso – svelandolo proprio là dove si svolge – un sottile e “subdolo” gioco attuato da una voce che canta con il re nella battuta precedente (accordo di Dm6), per poi passare appunto al mi bemolle (Fa 7) nella 26, al mi naturale (Am6) nella battuta 27, e infine tornare al mi bemolle (Fa7) nella 29.

In tutto ciò, l’assolo non “molla mai l’osso”: continua a far cantare il do al di sopra di tutte le altre note assegnandogli il ruolo di perno attorno al quale si muove tutto questo lungo passaggio accordale.

Inoltre quella nota introduce senza traumi l’ascoltatore al nuovo cambio armonico rappresentato dal La bemolle settima che detta legge nella battuta 30 e del quale rappresenta la terza maggiore.

L’intero assolo proposto è da suonare attuando un lungo legato tra note e frasi. Mentre sul sassofono e su tutti gli altri strumenti a fiato questo è un effetto abbastanza facile da ottenere in quanto le dita selezionano di seguito le note ponendole su un’unica, lunga emissione d’aria, come è noto sull’armonica esso risulta molto più difficile, a tratti impossibile, forse, a causa dell’alternanza di note soffiate e aspirate che spezza il flusso d’aria.

Per tentare di riprodurre quel soffiato getziano che tanto valore aggiunto dona all’assolo, ho provato ad allentare leggermente entrame le viti che ancorano la “bocchiera” al corpo dello strumento così da fare uscire un po’ d’aria dai suoi lati senza far perdere troppa forza alla nota e senza pregiudicare il funzionamento del registro.

A essere onesti, quindi, ciò che si ottiene non è un vero e proprio “soffiato”, ma uno “sfiatato”, ma tant’è…

In studio, con un buon microfono, l’effetto in parte funziona, ma se il vostro termine di paragone è lo stesso effetto ottenuto proprio con il sassofono del grande Getz, non attendetevi risultati così eclatanti.

Altro suggerimento: meglio non provare a suonare questo assolo in presenza di figli piccoli, specie se muniti di trombetta.

A.A.

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http://it.wikipedia.org/wiki/Stan_Getz

*) Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.

M. Buonarroti, Rime

http://it.wikipedia.org/wiki/Stan_Getz


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