Aforisma 4: Joe Amoruso Dixit



A tanti nostri cantautori, si sa, il successo gli è stato regalato da testi molto poetici che pretendevano di diventare canzoni. Da noi, in Italia, terra del bel canto e dell’operetta, un buon testo sorretto da musica semplice e ben arrangiata oggi risulta essere un’accoppiata vincente: è il trionfo del concetto di canzonetta, quella che fa fare incassi facili perché si innesta nel cervello della gente e da lì non la smuove più nessuno. Quella che ancora piace tanto al mercato discografico che oramai mercato più non è.

La commistione di buon testo e di buon arrangiamento che indora musica spesso banale funziona esattamente come un tempo funzionava un buon libretto magari sostenuto da poche idee melodiche molto cantabili e da una buona orchestrazione. Sono tutti furbi accostamenti capaci di regalare l’impressione di star ascoltando chissà quali chicche musicali estremamente belle e ricercate.

Il problema sorge quando a un falò ferragostano, il principiante di turno prende una chitarra e inizia a intonare una di queste canzonette. In quel momento appare chiaro quanta parte il testo abbia avuto nel decretare il successo di un brano, ma soprattutto emerge subito quanto importante sia stato il sostegno dato dai musicisti che hanno suonato nel disco e che hanno aggiunto sapore a ricette musicali di cantanti molto noti ma spesso incapaci di suonare e di comporre qualcosa di interessante.

Quando si usa una chitarrina strimpellado i quattro accordi riportati in una raccolta di canzoni, capita di frequente che quelle composizioni risultino ricette del tutto insipide, se non addirittura brutte. Il lavoro del turnista, quel musicista esperto del suo strumento che viene chiamato in studio per aiutare a costruire i progetti musicali di altri, è spesso questo: fornire l’indoratura a un nulla musicale. Se lui è bravo, se lo sono i suoi colleghi e se l’arrangiatore non è l’ultimo arrivato, assieme renderanno quel nulla un brano di successo.

A un certo punto della serata, se il chitarrista da falò non è un musicista con un po’ di esperienza, capace per questo di dare ritmo e variazioni interessanti a quanto sta suonando, agli altri potrebbe venir voglia di strappargli la chitarra dalle mani e usarla per fare un doppio favore alla comunità: interompere lo strazio e rintuzzare il fuoco.

Nel grande falò dell’Italia della fine degli anni ’70, avvenne qualcosa di strano: in un clima perlopiù canzonettaro, arrivò un personaggio che, oltre a bei testi, a volte struggenti, a volte allegri e cantati in uno dei più bei dialetti dello stivale, aggiunse 1) una voce particolarissima, 2) accordi così diversi da quelli di solito usati nella musica leggera da mettere subito fuorigioco tutti i chitarristi improvvisati, 3) ritmi per nulla banali e 4) una band di professionisti ai quali finalmente si permetteva di suonare sul serio e non di far finta, come spesso accade di sentirsi chiedere quando si lavora in ambiente pop.

L‘aspetto incredibile di questa storia fu che l’italiano medio – cresciuto a interminabili filastrocche dalle parole bellissime, ma spesso sostenute da note insulse, noiosissime e sempre uguali – quando si trovò ad ascoltare per la prima volta la musica di quel personaggio nuovo, si dimostrò subito capace di apprezzarla, di capirla, di comprarla.

E questo accadde nonostante le atmosfere e gli arrangiamenti di quei brani fossero del tipo che di solito viene connesso a generi come il jazz e il blues, quindi di preconcetta, difficile fruizione.

La domanda che mi sono posto altre volte, torna allora prepotente: il successo di alcuni prodotti dipende davvero da quanto il pubblico dimostra di gradirli o è piuttosto funzione di ciò che, tramite una azione precisa, potente, capillare, il mercato ci porta a credere che sia il meglio del meglio?

In ogni caso, domandone a parte, il miracolo risultò compiuto: anche il razzista più incallito, si vantava di sapere a memoria le canzoni di quel personaggio nuovo e lo dimostrava storpiando in modo insopportabile la lingua propria di quanti aveva sempre disprezzato e che avrebbe ripreso a osteggiare proprio in questi anni, anche se in modo più subdolo (però avrebbe continuato a cantare Napule è)

Grazie a questo personaggio nuovo, il sud venne così ad avere un nuovo rappresentante che prima, molto prima di essere italiano, era 1) napoletano e 2) meridionale. Il Regno delle due Sicilie in qualche modo tornava a vivere nella cultura, la cultura delle due Sicilie; la cultura delle due Campanie. In quelle parole, quelle proteste, quegli accordi, campani, laziali, pugliesi, calabresi, siciliani, molisani, abbruzzesi e lucani si ritrovavano tutti. Tutti videro in quei testi e in quelle note paesaggi, situazioni, facce tipiche del loro quotidiano di sempre.

Lui, il personaggio nuovo e i suoi artisti non si presentavano certo come i nostri chansonnier più noti, quelli dall’aria intellettuale e macerata nel cocktail della loro pretesa genialità. Alle trasmissioni televisive la band arrivava come fosse appena scesa dal più scalcinato degli autobus cittadini. Una volta giunti negli studi televisivi, suonavano senza playback – e come suonavano! – , sudavano, sporcavano note che erano sempre audaci rispetto alle melodie leccate e agli accordi limati che tutti gli altri da sempre proponevano.

Suonavano e andavano via lasciando il pubblico con il dubbio che fare musica a un certo livello forse non fosse poi cosa da tutti.

La loro esibizione instillava negli astanti l’idea che la musica andasse rispettata perché lontana da quello che di solito erano abituati a sentire. Potevi anche sapere tutto degli accordi “strani”, ma essi sembravano diventare musica solo perché a suonarli erano “animali” i quali avevano una storia da raccontare che proprio non poteva essere taciuta. Forse è proprio così: in assenza di animalità e storie interessanti da narrare, quegli accordi non sono altro che accrocchi di suoni e, se lui lo desidera, puoi anche mandare tuo figlio a lezione di piano, di chitarra o di chissà quale strumento: sarà di sicuro un’esperienza formativa, ma questo non vorrà dire che automaticamente diventerà un musicista. Quella è un’altra faccenda che ha a che fare con un’emergenza espressiva, quella che il personaggio nuovo e i suoi musicisiti chiaramente possedevano.

Quel tale non era stato solo capace di sconvolgere il mondo del pop italiano. Possedeva anche il pregio di radunare attorno a sé un manipolo di adattissimi disadattati (almeno così all’epoca mi apparivano), tutti grandi musicisti e personaggi anche loro, per i quali accordi di tredicesima, sincopi, assoli da suonare per sostenere una canzone, fosse stata anche una canzone d’amore, erano una banale normalità.

Tra le soprese che tutti attendevano a ogni sua uscita discografica, ve n’era una che, mi sa, eravamo in pochissimi a bramare. Nei suoi nuovi dischi ci sarebbero state parole nuove, immagini dal basso di un sud incantato e sofferente, arrangiamenti da copiare. Per me che avevo iniziato a suonare da pochi anni, quegli accordi erano mondi da esplorare attentamente, nei quali perdermi sognando – come tutti i miei coetanei alle prese con la musica – che, se solo li avessi fatti miei, un giorno quel personaggio nuovo avrebbe potuto chiamarmi a suonare con lui.

Quella sorpresa ulteriore che dicevo e che attendevo a ogni sua uscita discografica, era la presenza di un brano suonato con il mio strumento preferito. Davanti a un LP, il mio primo gesto era sempre quello: aprire la confezione alla ricerca dell’elenco dei musicisti per scorrerlo così da vedere se, in mezzo a “piano”, chitarra”, “basso”, “batteria”, “percussioni”, “sassofono”, …  vi fosse anche “armonica”.

La mia era vera e propria fame causata da digiuni forzati: non sapevo nulla circa una discografia specifica per quell’aerofono: non c’era ancora internet e a sud nessuno poteva aiutarmi. Sembrava che a nessuno importasse di quel suono incredibile che ascoltavo solo per caso quando mi giungeva all’orecchio da una radio, o peggio, da un’autoradio in una macchina di passaggio.

Ricordo che una volta vidi a Domenica In il personaggio nuovo con un cappellone da cow-boy in testa e la chitarra a tracolla. A un certo punto tirò fuori dal taschino l’armonica cromatica e ferì l’aria con l’aria, suonando quelle famosissime note acute che danno inizio a Je so pazzo (1979). Quell’immagine e quelle note mi colpirono come un pugno in faccia bene assestato e rimasi tumefatto per un bel po’.

Quella canzone era contenuta nel suo secondo successo dopo Terra mia (1977) e a questi due dischi seguì un capolavoro assoluto: Nero a metà (1980). Nonostante su Je so pazzo fosse lui stesso a suonare l’armonica, il personaggio nuovo non era certo un virtuoso di quello strumento e in questo suo terzo disco, nella canzone I say ‘I sto ccà, preferì chiamare il buon Bruno de Filippi, decano degli armonicisti jazz italiani, il quale si trovò a poggiare le note leggere della sua chromonica su un blocco sonoro solido, entusiasmante e magistralmente costruito dal gruppo.

Impossibile non passare alla storia. Impossibile che la storia ti ignori.

Non credo vi siano altre canzoni con l’armonica dopo Questa primavera, contenuta nell’LP Che Dio ti benedica (1993). Lì l’armonicista era ancora lui, il De Filippi.

Tra la pubblicazione di I say ‘I sto ccà e Questa Primavera sono intercorsi ben tredici, lunghi anni durante i quali la mia speranza di trovare quel suono nei suoi dischi è sempre stata frustrata.

Unica parziale eccezione, l’assolo su E po’che fà, un brano davvero solare contenuto nell’album dell’82 Bella ‘mbriana.

Breve ma a mio parere bellissimo è l’assolo del pianista Joe Amoruso, stavolta alle prese con la melodica: per suono e per funzionamento (ancia libera) una parente stretta dell’armonica.

Qui, oggi, protagoniste sono quelle note alle quali affido il mio ricordo di un periodo stupendo e irripetibile della musica italiana.

 (*) Non lo era, ma non suonava poi così male. Lui però si rese conto dei suoi limiti e in seguito chiamò a suonare con sé un armonicista davvero esperto. Oggi la tendenza mi sembra essere ben altra: se qualcuno si dovesse scoprire capace di suonare quella linea iniziale, sarebbe immediatamente portato a credere di essere un jazzista arrivato, nonché un navigato armonicista cromatico.


Angelo Adamo

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