Aforisma 6: Ottorino Respighi Dixit


Il brano del compositore bolognese Ottorino Respighi (1879 – 1936) che ho scelto questa volta per l’aforisma è I pini del Gianicolo. Lo si trova nella suite Pini di Roma che a sua volta fa parte di un trittico comprendente anche Fontane di Roma e Feste romane, tutti brani dedicati chiaramente alla nostra capitale.


È infatti a Roma che Respighi si trasferì, lavorò e lì morì alquanto giovane.

Come fa notare Pierre Vidal nel testo di accompagnamento al CD della Deutsche Grammophone in mio possesso e contenente le tre suite eseguite dalla Boston Symphony Orchestra diretta da Seui Ozawa:

Nella sua ammirazione per l’opera, la nostra epoca sostiene ostinatamente la tesi secondo la quale la musica italiana sarebbe morta con Puccini. Questo deplorevole atteggiamento fa sì che si dimentichi la generazione dei compositori nati intorno al 1880: Respighi, Pizzetti, Malipiero e Casella, i quali operarono per la rinascita della musica strumentale, trascurata per così tanto tempo nel loro paese

Le sensazioni che l’ascolto delle sue composizioni mi dona, mi fanno vibrare di sacro furore campanilistico, quasi io mi trovi ad assistere a una partita della nostra nazionale (quando gioca bene) ai mondiali di calcio: bello sapere che, oltre alle facili melodie e armonie pucciniane, l’Italia abbia saputo dare il suo contributo anche a correnti musicali di respiro europeo, se non addirittura mondiale.

L‘ascolto di questi brani di Respighi mette infatti a nudo le connessioni profonde esistenti tra certa cultura musicale del nostro paese e le tendenze musicali introdotte da Debussy e Stravinski, facendomi anche sospettare come alcune sue intuizioni possano essere confluite da una parte nella scrittura di Aaron Copland e dall’altra in quella di molti compositori di musica da film, in testa, John Williams.

Mi si consenta una breve deviazione di percorso. Grandi divoratori di nuove tendenze, oltreché come artisti, mi piace riguardare i compositori di colonne sonore come divulgatori di avanguardie musicali capaci di sfruttare sapientemente l’accostamento delle note alle immagini così da consolidare l’uso di formule sonore innovative e, per questo, per il pubblico ancora difficili da capire e assorbire.

Fine della deviazione. Torno a parlare di Respighi.

Avendo vissuto per sei mesi a Roma – nel 2006 ho lavorato al Planetario e Museo Astronomico (1), una splendida struttura chiusa quasi due anni orsono per ristrutturazioni urgentissime, mai iniziate – ed essendomi recato nella “città eterna” innumerevoli volte come turista, ma soprattutto come musicista, non faccio fatica a intuire quale fascinazione Respighi abbia provato vivendo lì.

Rischiando di sbagliarmi, ipotizzo quindi di capire fino in fondo la sensazione di profonda bellezza colta dallo sguardo del compositore in alcuni scorci capitolini, perché credo sia molto simile a quella che chiunque può apprezzare, anche se immagino che la città vissuta da lui, quella di inizio ‘900, sia stata ben più generosa di quella di questo inizio di secolo: la Roma del 2000 immerge turisti e cittadini ben disposti a farsi colpire dalla sua estrema, indicibile bellezza, in un mare di massima entropia di difficilissima gestione. Costringe chiunque ad accettare compromessi che non credo potrebbero oggi convincere un bolognese a lasciare spontaneamente la sua facilissima e bella città preferendole la capitale.

Come dicevo, il brano che ho scelto, il lento I pini del Gianicolo, puntualmente mi calma avallando quanto ho scritto appena più su. Introdotto da un lungo arpeggio del pianoforte, credo riesca a comunicarmi quella sensazione di pace grazie all’ariosità del solo di clarinetto che segue. Interamente giocato sull’uso della semplice penatonica di Fa Diesis e sull’arpeggio di un accordo di Si 9/maj7 (mi piace vederla così) e su periodiche aperture di ottava, tocca elegantemente l’estremo inferiore dell’estensione dello strumento e arriva quasi a raggiungere anche l’estremo superiore. Cede poi il testimone al flauto che in poche battute conduce il tema fino a cederlo agli archi.

Ma, per quanto mi riguarda, nonostante la soavità dei temi iniziali, il bello deve ancora venire: dopo questa prima fase, a mio parere una lunga preparazione a ciò che sta per arrivare creata con pianoforte, clarinetto e flauto, si giunge a due battute nelle quali provo un incredibile sensazione di smarrimento creato da pochi, sognanti accordi degli archi e della celesta. Se vi è notizia di una sindrome di Stendhal in musica, credo che gli accordi di quelle due battute, apice del brano, possano essere usati per generarla nelle persone più sensibili.

Rispettando i motivi per cui registro questi aforismi che, oltreché occasioni di studio, costituiscono essenzialmente un modo di “fare mie” prede musicali rappresentanti momenti fondamentali della mia storia musicale personale, mi sono sforzato di andare a tempo con l’orchestra tentando di intuire, senza vederli, i movimenti, quindi i respiri, di Ozawa. Ovvio che il tentativo presenti dei problemi specie su un tempo così lento, a tratti un rubato, come quello del brano. Chiedo venia per le imprecisioni in quello che nei miei programmi doveva essere un unisono.

In conclusione, mi sa che prima o poi dovrò riaffrontare un discorso più ampio di analisi della musica a programma che si propone di descrivere pezzi di Natura. Un’analisi che ho già compiuto limitatamente ad alcune composizioni d’ispirazione astronomica di John Cage. Pubblicata su Il Giornale di Astronomia (2) e raccontata tante volte in giro per l’Italia e al congresso INSAP VI (3)!


Angelo Adamo

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1 – http://www.planetarioroma.it/

2 – http://sait.interlandia.net/giornalediastronomia.html

3 – http://www.insap.org/